Primavera Sound 2005 Report (LT 07 Preview)
Stephen Malkmus - Home Alone (LT 06)
Adam Green - American Idol (LT 05)
Low... forever changes (LT 05)
Revisionismi: J Mascis - Martin And Me (LT 05)
Sono un ribelle, mamma (Write Up n.2)
Tra le pareti (www.julieshaircut.com)
Broken Social Scene: all in the family (LT04)
Revisionismi:Weezer-Pinkerton (LT04)
Le parole che non ti ho detto (MarieClaire feb 05)
Revisionismi: Scisma-Armstrong (LT03)
Meg: essenza multiforme (LT03)
Greg Dulli e Manuel Agnelli: Matrimonio all'italiana (LT03)
American Music Club e R.E.M.- Once were warriors (LT03)
La lunga estate dei folletti (LT02)
Not tomorrow!No manana!Today! (LT02)
Blonde Redhead sulle ali della farfalla (LT01)
Oltre la traversa (Il Mucchio Selvaggio 2002/2003)


Weeds



venerdì, marzo 30, 2007

Take Ecstasy with !!! (Fan scintille con la "legna" figuriamoci con...)

Ieri sera al Circolo degli Artisti c'era Enrico Ghezzi.
E non lo dico così, tanto per fare Vip Watching, ma perché la presenza di Ghezzi ad un concerto è un segnale. Per tutta una serie di ragioni.
La prima, banale, è perché Ghezzi porta bene. I due concerti che mi era capitato di vedere a pochi metri da lui sono finiti dritti dritti nell'albo dei ricordi. Un Battiato di dieci anni fa, quando Sgalambro non aveva ancora la pretesa di cantare e, soprattutto, un meraviglioso live dei Fugazi al Forte Prenestino che è rimasto per anni, travestito da manifesto, vicino alla mia testa nel momento di dormire. E poi ieri, che insomma potrà pure non rimanere nella memoria ma nelle gambe e nelle braccia. Nei muscoli pure. E parecchio.
L'altro motivo, che è banale pure quello ma è diverso e mi permette di partire con una lunghissima meta-pippa, è che Enrico Ghezzi è il re del fuorisincrono.
E non c'è niente di meglio del fuorisincrono per spiegare una serata come quella di ieri al Circolo.
I !!! sul palco erano l'ira di Dio. Come sempre. Davano l'impressione di suonare come se fosse l'ultimo concerto della loro vita. Non si risparmiavano e sembravano scontenti delle reazioni del pubblico. Una roba tipo: "Io sono qui che prendo il mondo a spallate, mentre tu che stai sotto ti comporti come ad una gara di liscio del sabato pomeriggio al centro anziani".
D'altro canto quello che mi arrivava di tutto questo grande sfoggio di energia non recepita era un enorme mole di suono basso/batteria/due chitarre/fiati/synth/percussioni che giocava a rimpiattino e s'infrangeva sugli ottocento corpi ballanti, urlanti e sudanti, del sold out.
Una massa indistinta che nonostante tutto prendeva dritto allo stomaco e ti faceva muovere. Un po' come quelle malattie del sistema nervoso che fanno andare gli arti per i cazzi loro nonostante il cervello ordini tutt'altro.
Ed era la quarta volta che li vedevo. La quarta volta in cui Nic Offer saliva sul palco e per un'ora e quarto ti constringeva a non staccare mai gli occhi dalla ripetizione forsennata di un passo di danza. Quello denominato del "coguaro infrocito". Braccia a quarantacinque gradi, palmi rivolti in fuori, spalle che fanno su e giù e testa che dondola in maniera ipnotica. Matematica, quasi.
Era la quarta volta. Uguale alla prima, ma con tutta un'altra gamma di sensazioni con cui giocare a morra cinese. Meglio della seconda. E la terza proprio non la voglio contare.
Eppure avevano fatto Me and Giuliani... senza bis.
Ieri no. Ieri solo cinque minuti di drone di chitarra e buonanotte al secchio.
Ma c'era Enrico Ghezzi.




Guarda: 17 minuti dei !!! live al Pukkelpop 2006.

giovedì, marzo 29, 2007

Blackology (guida sragionata al Frank Black solista. L'update che non ti aspetti)



C'è una scena in LoudQuietLoud, il documentario sulla reunion dei Pixies, che più di ogni altra fotografa il personaggio FrankBlackFrancis e "spiega"la persona Charles Michael Kittridge Thompson IV.
Ci sono i Pixies, tutti insieme, nel backstage della London Brixton Academy. E' la prima di quattro date in quel di Londra. Tutte sold out. Il gruppo è teso, ma non è una novità.
Finalmente arriva il momento di iniziare il soudcheck. I roadie hanno appena finito di montare il palco ed i quattro Pixies a turno cominciano a provare gli strumenti.
Inizia la batteria: "David dammi un po' di cassa.", thump.
E poi il rullante, il timpano, i piatti e tocca a Kim Deal.
"Prima il pulito". Eccolo. Poi il distorto.
FrankBlackFrancis, nel frattempo, è impegnato a lottare contro il nervosimo.
Deve aspettare ancora un po' prima che arrivi il suo turno, ma non ce la fa.
Di botto si gira e prende la porta del locale. La telecamera lo segue.
FrankBlackFrancis arriva in strada. Indossa una t-shirt e dei bermuda al ginocchio. La gente lo riconosce. Qualcuno lo ferma. Lui stringe la mano distrattamente e continua ad andare dritto verso la meta: lo sleeping bus dei Pixies. Qui si fa aprire ed una volta dentro cerca di raggiungere la "zona sonno". Si spoglia. Tira fuori l'iPod. Indossa le cuffie. Si sdraia sul letto e comincia a ripetere: "Sono una buona persona. E' normale che la gente voglia passare del tempo con me. Perché sono una buona persona ed ho del talento. Io ho del talento..." e così via.
Fino a perdere coscienza.

FrankBlackFrancis ha del talento. E non serve certo che lo dica io. Ed è inquieto.
Inquieto al punto di non accontentarsi mai (o non piacersi mai).
Funge da prova la folle corsa dei 5 dischi in 5 anni che il nostro ha fatto uscire dal 2003 ad oggi.
L'ultimo album cattolico ("Show me Your Tears"), la ritinteggiatura delle canzoni dei Pixies fatte con i Two Pale Boys ("FranckBlackFrancis"), il viaggio verso Nashville con soste prolungate nel country e nel soul ("Honeycomb" e "Fastman, Raiderman") e la raccolta live con inediti mascherata da regalo di Natale only for fans ("Christmass", appunto).
Cinque (sarebbe più corretto dire quattro) visioni differenti di un percorso uguale. Un continuo rimpallarsi in dimensioni parallele in cui solo una piccola parte della realtà viene alteratà . Una parte piccola ma decisiva.
Fino ad arrivare all'oggi. Con i fan più accaniti dei Pixies che con il coltello tra i denti attendono una scelta definitva (o un nuovo album o muerte) e Frank Black che ancora una volta si diverte a sorprendere.
Partiamo dall'inizio: agli inizi di febbraio, sul suo forum semiufficiale cominciano ad apparire dei messaggi lasciati da Sua Rotondità in persona. I messaggi sono a tratti incomprensibili, tant'è che si pensa siano stati scritti inglese per poi essere tradotti in tedesco con il traduttore automatico di Google e ancora una volta ritradotti in inglese.
Di molti non si capisce il senso, ma l'ultimo parla chiaro e fa rimerimento ad un nuovo album chiamato "Bluefinger" ed intestato a Black Francis (già).
Non si sa molto di questo nuovo lavoro, se non che vede alla prosuzione tale Mark (senza cognome) e nella line up con Black, un bassista ed un batterista. Alla seconda voce Violet. Che sta per Violet Clark. Che sta per la donna con cui Frank Black ha fatto due figli ereditandone altri due. La sua compagna, insomma.

Si dice che "Bluefinger" dovrebbe uscire entro la fine del 2007, ma si dice anche che potrebbe non uscire mai. Resta il fatto che da un po' di giorni l'album è tranquillamente reperibile online (nei soliti canali illegali). Ed è, senza rischiare di esagarare, uno dei migliori dischi del Black solista.
In assoluto. Siamo dalle parti del primo omonimo e di "Teenager of the Year".
Canzoni tirate (power pop si diceva una volta), essenziali nei loro arrangiamenti basso, chitarra, batteria. Così lontane dal formalismo di "Honeycomb" e "Fastman, Raiderman". Non cercano la perfezione, ma preferiscono puntare sull'istintività.
Per non parlare dei testi, surreali, ironici e terrificanti.
Testi scritti da Black Francis. Forse.
Gira infatti la voce che molte di queste canzoni non siano altro che un tributo ad Herman Brood, un artista olandese morto nel 2001 dopo anni di abusi di ogni genere e sostanza.
L'unica cosa certa è la presenza di una cover (You Can't Break a Heart and Have it), ma l'album intero è pieno di riferimenti all'Olanda e all'opera di questa specie di punk rocker tulipano. Mah, lo scopriremo solo vivendo.
L'unica certezza è che, in concreto, la cosa più importante generata dalla reunion dei Pixies è stata l'opportunità di ritrovarsi nelle mani e nelle orecchie i dischi solisti di un FrankBlackFrancis molto in forma. E meno male. Nonostante (e forse "grazie") il "training autogeno".

Guarda: lo pseudo video di Threshold Apprehension.
Ascolta: You Can't Break a Heart and Have it.
Angels Come to Confort you

Del fatidico nuovo album dei Pixies ormai non se ne parla quasi più, ma è stata annunciata l'uscita di un tributo ("Dig for Fire") con Mogwai, Dinosaur Jr, Ok Go, They Might Be Giants ed altri.
Staremo a vedere.

La cassadaga, il contrabbasso, eccetera...



E finalmente Conor c'è!
Poi magari lo ascolto.
Intanto: Clairaudients (Kill or Be Killed).

martedì, marzo 27, 2007

Austin, sotto casa tua.



Ecco cosa succede con i festival al tempo di Internet (anche se il SXSW non è propriamente un festival): non fanno neanche in tempo a finire e già sono reperibili online.

Per dire: qui ci sono un po' di live (interi) in mp3. Dagli Stooges agli Okkervil River, passando per Beirut, Peter, Bjorn and John e gli Apples in Stereo. Ma non solo.

Marina, invece, si è fatta il viaggio Bologna-Austin andata e ritorno per riprendere dei concerti. I risultati si possono seguire giornalmente su Vitaminic.
Sono stati già postati: Lily Allen, Beirut e i Calla.
Altri arriveranno.

Ma il vero spasso rimane digitare SXSW su YouTube ed annegare nella pioggia di video che cadrà sulle vostre teste.

Per il resto: si capisce che ultimamente sono un po' a corto d'ispirazione?
Si capisce, si capisce...

giovedì, marzo 22, 2007

Un superattico, che sballo!

In the Attic è un programma televisivo.
Ma non va in televisione.

Lo conducono Pete Townshend e Rachel Fuller. Se il primo non ha bisogno di presentazioni (è vero che non ce l'ha, no?), la seconda forse un po' sì.
E' una cantautrice inglese, inanzitutto, anche se ultimamente si sta facendo notare per le sue attività collaterali. Il suo blog, appunto, e soprattutto la trasmissione.
Un'idea semplice e banalissima, ma al tempo stesso rivoluzionaria.
In parole povere Pete e Rachel portano la loro roulotte in qualunque posto ci sia della musica.
Di solito preferiscono i grandi eventi, i festival all'aperto che in Inghilterra sicuramente non mancano. Nella roulotte viene allestito un piccolo set. Due poltrone bianche, un tavolino e poco altro.
Poi ci sono i microfoni e gli strumenti. Due chitarre acustiche ed una tastiera. Di solito.
E ci sono i musicisti. Quelli che si esibiscono sui palchi dei festival, poi tornano nel backstage, salgono nella roulotte e registrano dei mini live unplugged con Pete e Rachel.
Molti si limitano semplicemente ad eseguire i loro pezzi più noti. Altri, parecchi, non resistono alla tentazione di avere Pete Townshend a portata di mano e si lasciano andare a bizzarre reinterpretazioni di pezzi degli Who e non solo.
Fin ora hanno partecipato al programma: i Raconteurs, gli Eels, Flaming Lips, Magic Numbers, Kooks, Fratellis, Martha Wainwright e tanti, tantissimi, altri.
Come testimonia il montaggio presente su YouTube.



Il bello è che tutto questo viene trasmesso regolarmente via podcast, senza bisogno di versare oboli. Solo cliccando. Qui.
E se provassimo a fare qualcosa del genere anche in Italia?
Che dite?

lunedì, marzo 19, 2007

Trinacria blues (band on the run vol. 2)



I giorni di tour, i "nostri" giorni di tour, quelli dei MiceCars, iniziano ufficialmente con l'ultima doccia fatta prima di trovarci per caricare gli strumenti sul furgone e finiscono con quella del ritorno. Di solito, la prima cosa che avviene appena mettiamo i piedi nelle nostre rispettive case.
Perché c'è poco da fare: è proprio andando in giro e stando spesso lontano da casa che si comincia ad apprezzare di più la quotidianità. E a comprendere l'unica vera regola di questa società: nessun bagno è come il tuo bagno e niente ti mancherà quanto lui. Neanche la fidanzata.
Di bagni in Sicilia ne abbiamo visti e conosciuti molti, moltissimi, ma non sarà sicuramente di loro che ci ricordermo quando, fra qualche anno, ripenseremo a quei giorni bellissimi e surreali vissuti da quelle parti. Saranno altre le cose, belle, tristi, divertenti, stupide, incomprensibili agli altri e all'apparenza insignificanti, che ci porteremo dentro. "Cose nostre". E basta.

Siamo partiti per la Sicilia di notte. Finito il concerto del Nohaybanda Trio in quel del Circolo degli Artisti. Dopo un pausa sonno di un paio d'ore scarse ci siamo messi seriamente in moto.
E mettersi in moto per la Sicilia, con un furgone (Bolt Thrower, si chiama così) e sette scalmanati in evidente crisi di sonno, vuol dire solo una cosa: rischiare continuamente di morire.
La Salerno-Reggio Calabria si presenta come un enorme set di Giochi senza Frontiere. I cartelli, i birilli, lavori che scompaiono e appaiono in ogni chilometro, i pazzi scatenati per cui il sorpasso a destra rappresenta una missione, non possono essere veri. Deve averceli per forza di cose messi lì qualcuno. Come livelli di un videogame che si fa sempre più difficile.
Eppure i nostri abili guidatori (Lele, Enrico, Matteo e Giovanni) riescono a superare tutte le prove e portarci finalmente a Catania. Nonostante il traffico infernale all'imbocco dei traghetti ed il mio bizzarro tentativo di mozzare la mano di Giovanni con una sportellata.

Catania è una citta bellissima, spettacolare quasi. Affascinante, seppur mal tenuta, come pochissime altre città europee (a me viene in mente Barcellona, ma forse sbaglio).
La Cartiera è un locale piccolo a due passi dalla Piazza del Teatro Massimo.
Per arrivarci commettiamo tante infrazioni quante i motorini senza casco che incrociamo, ma alla fine ce la facciamo. Appena varcata la soglia del locale ci prende un colpo.
Il palco è minuscolo, scarno ed è subito chiaro che dal punto di vista strettamente tecnico non sarà una serata facile. Ma fa niente, ogni timore passa mentre facciamo conoscenza con la gente del posto. Guglielmo, il padrone del locale, Barbagallo e Lorenzo dei Tempestine (il gruppo "spalla") e di tantissime altre band. L'ultimo soprattutto sarà una presenza fondamentale della nostra piccola invasione siciliana. Presentatosi come promoter, svolgerà di fatto qualsiasi tipo di funzione. Da ospite a guida turistica passando per dj e risolutore dei problemi.
Per venire incontro ai limiti tecnici imposti dal locale decidiamo di fare un set ridotto: via Liquid Pets dalla scaletta, synth e campionatore rimangono nelle loro rispettive custodie e alcuni pezzi vengono leggermente riarrangiati.
E' la prima volta che facciamo quasi tutto da soli, dal cablaggio del palco ai volumi, ed il fatto che la serata non sia stata totalmente da buttare via ci inorgoglisce. Il concerto fila via abbastanza bene, ogni tanto le voci spariscono, ma il pubblico presente sembra apprezzare.
Più di qualcuno canta le canzoni e questo, quando succede, è sempre molto emozionante.
Il tempo di smontare e mettere a posto le nostre cose e siamo già tutti inghiottiti da Catania. Mentre gli altri si scannano con la playstation, io e Daniele (dovrei scrivere Little P, ma mi viene da ridere) con Lorenzo, Barbagallo e Totò, il promoter della data di Gela, ci lasciamo attrarre dalla movida catanese. La serata finisce a casa di Lorenzo a bere birre e ascoltare musica (i nuovi pezzi degli Albanopower sono eccezionali). Prima di morire sul materasso e chiudere finalmente una giornata bella ma estenuante.

A separare Catania da Gela ci sono, fortunatamente, solo 150 chilometri. Per cui possiamo prendercela comoda e passare parte della giornata in giro per la città.
Menzione particolare per il negozio Rock 86 e per il vinile di "On the Beach" che mi sono comprato. Applausi a scena aperta, invece, per le pasticcerie, le tavole calde e i bar che abbiamo letteralmente saccheggiato. Arancino is the new drug.
Soprattutto se consumato a Villa Bellini.
Il tempo di salutare Lorenzo e gli altri (con molti di loro l'appuntamento è a Floridia per la terza e ultima data del minitour) e siamo di nuovo in moto.
Chiunque abbia mai viaggiato con un gruppo ristretto di persone (non per forza un gruppo musicale) sa di quei piccoli tormentoni che si creano e diventano il collante delle interazioni on the road.
Bene, ultimamente nel van (yeah!) dei MiceCars risuonano le note di "Ho saputo che hai acciso lu porco", canzone popolare molisana che Giovanni accenna con solerzia, pur ricordandone solo un verso. Quello citato poco sopra.

Se Catania è una bella città, Gela è l'esatto contrario.
Spiace dirlo, ma è la verita. Nonostante tutto, la venue del concerto è qualcosa di mai visto: uno chalet in legno collocato direttamente sulla spiaggia. Praticamente: una rotonda sul ma...reeeeee (da leggere con le pause bongustiane al posto giusto). Anche qui le condizioni tecniche non sono delle migliori, nonostante il palco molto grande e tastiere e campionatore che finalmente tornano ad occupare il centro del palco. Probabilmente della Sicilia ci ricorderemo maggiormente solo due cose: l'enorme difficoltà nel far uscire un suono che sia quantomeno distinguibile e la bellissima umanità con cui siamo venuti a contatto. Persone eccezionali che hanno reso possibili questi concerti e ci hanno aiutato a non farci condizionare dai nostri sbalzi di umore dettati dagli eventi.
In questo senso Totò, Fabio e Andrea sono stati preziosissimi, e se il concerto è andato in porto, nonostante la sfiga che in quel momento si accaniva su di noi e altre situazioni poco piacevoli (ampli che si rompono, chitarre che si trasformano in sitar ed altre cose che non sto qui a dire), è anche merito loro.
Il concerto di Gela va un po' peggio di quello di Catania. L'acustica questa volta è da incubo, ma alla fine, comunque, qualche copia si riesce a venderla. Segno che forse non proprio tutto è andato da schifo.
Un'altra costante delle trasferte MiceCars nel resto del globo è il terribile momento degli Scherzi da prete che accadono ogni qual volta il buon Pier (scrivere Peter T mi fa ridere anche più di Little P) viene colto dal raptus. Per cui: dentifricio nelle scarpe, asciugamani bagnati e altri agguati diventano un pesante spauracchio. Figuriamoci con una spiaggia a disposizione. Il rischio di sabbia nelle mutande è altissimo. Soprattutto se le mutande sono quelle dell'autore degli scherzi, vittima, come nella migliore tradizione, delle sue stesse malsane idee.
Arriviamo a dormire che siamo tutti conciati per le feste. Il letale mix alcool/freddo renderà il risveglio del giorno dopo ancora più drammatico.

Abbiamo molte cose da sistemare, per cui decidiamo di partire per Floridia presto.
Troppo presto. Talmente presto che dobbiamo aspettare diverse ore che qualcuno arrivi al locale per aprirci e farci montare gli strumenti. Colpa nostra. Ci siamo presentati con un anticipo di tre ore.
Il Ramses (questo è il nome del locale) fa un po' paura, visto da fuori. Colpa della statue egiziane presenti davanti all'entrata, tanto minacciose quanto bizzarre. Anche questa volta appena varcata la soglia ci viene il magone. Il palco è piccolissimo. Troppo piccolo per sei persone, tant'è che siamo costretti ad inventarci una formazione alternativa: tre sopra il palco con gli ampli e le tre voci sotto con tutto l'ambaradan del caso. Come in tutte le date sicule, alla fine riusciamo a spuntarla. Anzi: questa volta va tutto come deve andare. Si sente abbastanza bene, il locale è pieno la gente risponde ballando e circondando il palco. Più di qualcuno si è anche fatto il viaggio da Catania per rivedere un concerto già visto due giorni prima. Tra questi Andrea, idolo indiscusso, venuto appositamente per onorare una nostra richiesta: un vassoio di dolcetti in cambio di Underwater Slug. Pienone e serata bellissima, per tutta una serie di ragioni che ancora una volta hanno a che fare con il lato umano della faccenda. Per me in particolare, passare da Floridia ha voluto dire incontrare nuovamente delle persone che non avrei mai più pensato di vedere. Le chacchiere e le bevute (parecchie, tante, troppe, ma necessarie) di quella sera non me le scorderò per un po'. Dovremmo andare a dormire quando gli altri si svegliano (un grazie anche a Saro, il padrone del Ramses, che ha tirato oltre l'alba con noi), ma decidiamo che non ne vale la pena.

Il concerto di Reggio Calabria è purtroppo saltato e siamo costretti a tornare a Roma per consegnare di nuovo il furgone. Per cui, ancora una volta, traghetto, Salerno-Reggio Calabria, e gli stessi chilometri dell'andata, ma sull'altra corsia. Arriviamo a Roma che il giorno è gia finito.
Scarichiamo, ci salutiamo e torniamo di corsa a casa. Pronti a riabbracciare le nostre... docce.
La valigia questa volta rimane nell'atrio. Vicino alla porta.

Giovedì si riparte. Nuovo giro, nuova corsa.
Le mete: Arezzo (al Double Deuce), poi Bergamo (venerdì allo Zero) e Udine (sabato al No Fun).
E a chi non viene: "Gli squacciamo la coccia!".



Ps: Andare in Sicilia ci ha permesso di venire a contatto con realtà e band molto interessanti. Questi sono i link di quelle incontrate nel nostro cammino.
Ascoltatele. Ne vale la pena.

Albanopower
Tempestine
The Last Merendina
Suzanne's Silver
Barbagallo
Flugge
Matildamay

mercoledì, marzo 14, 2007

#9 Dream

Una vecchia canzone di John Lennon.
Una nuova canzone degli R.E.M.
Una compilation benefica per il Darfur.
Un singolo in download su iTunes (americano).
Ma soprattutto la prima canzone registrata da Bill Berry.
Dopo dieci anni esatti.


Ve lo dico con un certo anticipo (Parental Advisory: Musica da vecchi)

Per compleanno: regalatemi un Neil Young.
Questo.

A parte tutto (ed una raccolta comprendente 8 cd e 2 dvd è effettivamente la cosa più vicina a "tutto" che mi viene in mente), quant'è megalomane un uomo che per festeggiare i suoi quarant'anni di carriera pubblica una raccolta/mastodonte che ne affronta solo una piccola parte (1963 - 1972)?
Devo affittare una casa apposta per metterci dentro gli altri volumi?

Vabbè, è Neil Young. Ti credo che è megalomane.
(Tra l'altro il live acustico del 1971, appena pubblicato dalla Reprise, è un piccolo capolavoro. Come dice Wittgenstein).

E questa è Ohio, dal vivo. Nel 1971. Alla Massey Hall.

domenica, marzo 11, 2007

E se dico che non c'ero?



Ultimamente sono molto preoccupato per la deriva presa dal mio modo di parlare.
Lo so, detta così non vuol dire nulla, ma vi giuro che è un dramma.
Per dire, da un po' di tempo ho preso l'abitudine di salutare le persone dicendo "bella".
"Bella", non so se mi spiego. "Bella" come Francesco quando era ancora DJ e come quelli che hanno sempre bisogno di "du spicci". Moneta.
"Bella". Come la "mejo gioventù".

Ultimamente dico "bella", invece di dire "ciao".
"Bella", invece di "pronto". Dico sempre "bella". Insomma. E mi fa strano.
Soprattutto perché tutto ciò accade dopo anni ed anni di lotta dura senza paura contro ogni tipo di slang giovanile in voga. Per capirci: "Matusa", va bene. La lingua che "frizzola" meno.
Ed è proprio questa scarsa predisposizione allo slang che mi fa guardare con sospetto tutta la faccenda dei Di.Co (quale sia la grafia corretta è ancora un mistero).
Mi spiego meglio: Dico, a Roma, è il modo che i coatti, se si chiamano ancora così, usano per aprire o enfatizzare alcune frasi.
"Dicoooo... guarda che ber culo. Diceeeee... come quello di tua madre!". Una cosa del genere.
Dicoooo.
E a me i Di.Co, quelli veri, il compromesso antistorico tra l'urgenza di un diritto e la sua applicazione in un paese popolato da beghini, non piacciono. Un po' per la storia dei coatti, parecchio perché volevo i Pacs.
E sì, sempre meglio i Di.Co, di niente. Come "sempre meglio Prodi di Berlusconi" e "la Roma della Lazio". Perfettamente in linea con la logica tutta italiana che fra qualche anno ci spingerà a cibarci solamente di bacche. "Sempre meglio della merda", ma mai buone per davvero.
E forse è per questo motivo che aveva senso scendere a Piazza Farnese. Ed è per questa motivo che in molti, ma non moltissimi, ci sono scesi. Perché volevano i Pacs e forse si ritroveranno i Di.Co. Forse.

Sarei dovuto andare alla manifestazione. L'argomento, quello "ampio", lo meritava.
Non l'ho fatto. Colpa di un appuntamento programmato da tempo e della mia incapacità a riorganizzarmi la vita anche dopo l'annullamento dello stesso. Aspettando un sabato come se dovessi fare chissà cosa e non riuscendo, di rimando, a fare nulla.
Sarei dovuto andare. E mi sono sentito in colpa.
Almeno fino a quando i racconti dalla manifestazione ed i servizi dei telegiornali (pochi a dire il vero), mi hanno fatto capire che potrebbe essere stato meglio così.
Che le manifestazioni ormai mi fanno lo stesso effetto di Daniele Silvestri.
Io lo so che è bravo il Silvestri. Lo so che ha un grande talento, che ha scritto cose meritevoli e che ha i mezzi adatti a piazzare il colpo di genio. Lo so, ma ogni volta che sento una sua nuova canzone con tutte le rime con la stessa desinenza (Paranza, stronza, Ponza, panza, manza, Cesare Lanza, la baldanzanza...), non riesco a non pensare a tutto quel talento come a un "si potrebbe fare molto di più, ma si fanno più soldi con l'abbastanza". Che per inciso è un'altra parola che starebbe bene in un pezzo di Silvestri.
Con le manifestazioni è la stessa cosa. Lo so che servono. Che sono importanti. Che far sentire la propria voce è un diritto a cui non si dovrebbe mai rinunciare. Lo so, ma so anche che incastrare la benedetta "propria voce" tra un Diaco in odor di coming out (sarebbe ora), gli striscioni "Io DICO Zapatero" e tutto il resto, forse ha più o meno lo stesso effetto che entrare nel bel mezzo di un rave party reggendo un altoparlante che diffonde Satie.
Forse.

venerdì, marzo 09, 2007

Il twee pop del diablo (love me/follow me)

A Roma ormai si gira senza cappotto. Anche di sera. L'otto di marzo.
Per strada gruppuscoli di donne si muovono in simultanea facendo lo slalom tra le mimose ormai vecchie di un giorno e i single pronti a buttarsi sulle prede come avvoltoi.
C'è folla davanti la porta della Locanda Atlantide. La stessa folla che incredibilmente svanisce appena si entra nel locale.
Poche persone attendono sotto il palco l'inizio del concerto, in molti hanno preso le sedie dalla saletta "chiacchiere"e se le sono portate dietro.
Il palco è addobbato in maniera strana: due grancasse, due charleston, un contrabbasso e diversi ampli per chitarra. Il centro è occupato da una strana cassa da cui, a mo' di coni, escono fuori degli altoparlanti simili a quelli di un grammofono. Una sorta di pre-amplificatore, nel senso di "amplificatore precedente l'invenzione dell'amplificatore", di cui tutti in sala ignorano la funzione.
Diventa più chiaro qualche minuto dopo, quando finalmente si spengono le luci e il bizarro marchingegno viene utilizzato praticamente come una loop station molto più scomoda da portarsi dietro.
Vanno visti dal vivo, i Deltahead. Vanno visti dal vivo molto più che ascoltati su disco.
Soprattutto se si è tra quelli che credono che le uniche cose interessanti venute fuori dalla Svezia siano quelle che hanno a che fare con l'indie pop più "gommoso", il garage rock e il black metal.
Generi che, in un modo o nell'altro, i Deltahead finiscono comunque per toccare. Nonostante siano convinti di suonare blues degli anni venti. Prendendo dal twee pop l'aspetto più teatrale, la capacità di creare un immaginario che faccia da forte contorno alla musica. Dal garage i suoni e le distorsioni, mentre dal metal l'attitudine e soprattutto le facce. A partire da quella del bassista: un clone nordico del Jason Newsted fu Metallica.

I due (perché i Deltahead sono solo due ceffi con l'abitudine di suonare tutti gli strumenti contemporaneamente, come Totò in Totò e le Mokò) arrivano sul palco conciati da Dresden Dolls meno soft core, rendendo omaggio alla tradizione vaudeville. Distribuiscono al pubblico bastoncini di incenso fumanti. Si accomodano dietro gli strumenti e picchiano come addannati. Per mezz'ora. Mezz'ora di concerto tiratissima in cui si spostano da un genere all'altro sempre fingendo di suonare blues (dalla no wave al punk passando per Captain Beefheart, i Liars e la techno), si fermano, offrono alla gente pop corn e coriandoli, indossano maschere e ricominciano.
Fino alla fine di un live set mascherato da performance.
O è il contrario?




Ascolta: quattro pezzi dei Deltahead dal loro MySpace.
Guarda: il cortometraggio girato da un gruppo di studenti per Don't Move to Finland.

martedì, marzo 06, 2007

Into the blue (last cigarettes are all you can get, turning your orbit around)


Scriverò questo post e lo metterò in draft. Apparirà magicamente una mattina, quella del 19 maggio e a quel punto il disco degli Wilco sarà stato pubblicato da circa un giorno ed io l'avrò ascoltato almeno sessantamila volte, avrò avuto il tempo di imparare a memoria i testi, cantare tutte le canzoni, commuovermi, alzare il volume al massimo...
Sarò riuscito a metabolizzarlo, capirlo, analizzarlo in ogni sua sfaccettatura. Magari ripenserò al primo ascolto, alla prima volta in cui ho spinto play e l'ho fatto partire.
Alla faccia che ho fatto durante il primo assolo di chitarra. Al momento in cui ho pensato: "Oddio ma che è successo?". Colto di sorpresa, spaventato quasi, dalla nitidezza formale degli assoli di Nels Cline bollati come virtuosismi. Riderò e passerò avanti, alla seconda volta.
Penserò a quella mattina di un paio di mesi prima, alla primavera che inizia in anticipo e "Sky Blue Sky" che sembra esserne la colonna sonora perfetta. In tutto e per tutto. Assoli compresi.
Tornerò su questa pagina e lo riascolterò di nuovo.
Al primo ritornello di Either Way starò già rileggendo la lunga pippa sui due dvd ufficiali degli Wilco ("I'm Trying to Break Your Heart" e "Sunken Treasure") e sul fatto che tutti e due iniziano con un viaggio in macchina. Sulla metafora del viaggio e su come queste nuove canzoni, rilassate solo all'apparenza, ne siano la più nitida rappresentazione. Perché "Sky Blue Sky" si "muove", spiazza, pur restando omogeneo, definito, parte e completamento di un percorso iniziato con "A.M." ormai tanti anni fa.
Leggerò quella (non) recensione "canzone per canzone". Con You Are My Face che sembrava un upgrade di "A Ghost is Born", con le elettriche che entrano e dividono il pezzo a metà stravolgendone l'atmosfera e facendo apparire, ancora una volta, il fantasma di Neil Young (la melodia è impressionante). E Impossible Germany che è pop diluito in quasi sei minuti di canzone e sembra una specie di purgatorio prima della leggera (come potrebbe essere altrimenti) Sky Blue Sky, e Side with Seeds che parte soul e finisce con le chitarre che s'inseguono come in un poliziottesco di altri tempi, dando l'impressione di un lavoro registrato praticamente in presa diretta, con i musicisti tutti nella stessa stanza e nello stesso momento. Come in un concerto dal vivo.
Nel frattempo sarà già iniziata Shake it Off, con l'arpeggio iniziale che ricorda The Wind Cries Mary di Hendrix ed il finale che rimanda direttamente proprio alla psichedelia di quegli anni là.
Lo riascolterò tutto, fino alla fine. Riderò leggendo di Hate it Here dipinta come la ballata che gli U2 stanno cercando di scrivere, con scarsi risultati, da quasi un decennio e canterò a squarciagola Walken. La canzone forse più immediata dell'intero album. Nonostante la pioggia di riff.
Arriverò alla fine, alla coda d'archi di On and On and On, con la consapevolezza che non si dovrebbe mai scrivere di un disco con l'emotività dei primi ascolti.
Che si finisce per spararla grossa, con la convinzione di aver trovato già a marzo il possibile disco dell'anno. Anche se lo leggerete a maggio.

Ascolta: White Light (il primo singolo, in download sul sito ufficiale della band).
Gurda: Radio Cure (live dal bonus disc di "I'm Trying to Break Your Heart").

domenica, marzo 04, 2007

Perché Sanremo è... finito

Si è chiuso ieri sera. Con la vittoria a-a-annunciatissima di Simone Cristicchi e la sua sedia.
Già, la sedia. L'avete vista la sedia?
Quella che l'uomo dalla capigliatura di Napo Orso Capo e dal "testo toccante" si è portato sul palco per cinque giorni. Per fare il coup de teatre. Il grande gesto finale. Il "volo" del matto innamorato che dice addio alla vita. Una patetica cazzata, insomma. Una patetica cazzata che tutti i giornali hanno bollato come "suggestiva".
"Che c'entra?", direte voi. A Sanremo contano le canzoni mica i gesti, per cui se bisogna proprio parlarne sarebbe il caso di parlare di quelle. E la canzone di Cristicchi era senza dubbio una delle migliori in gara. La più riuscita cover di Fragile di Sting dai tempi di... Fragile di Sting.
A parte gli scherzi, è chiaro che un pezzo del genere, con quel testo e quel tipo di interpretazione sembra essere scritto apposta per fare breccia nei cuori della vastissima platea sanremese (il pezzo di Cristicchi sembra, quello di Moro è). Ed infatti: ha fatto breccia.
Il fatto è che Sanremo, inteso come luogo fisico misto a "enorme carrozzone mediatico/macchina organizzativa", è un posto al di fuori di qualsiasi regola vigente nel mondo reale. Lontano dal tempo e dallo spazio. Confinante a nord con l'isola di Lost e ad est con "la casetta piccolina in Canadà", per capirlo davvero, comprenderlo, si deve viverlo da lì. Da San Remo.

Io l'ho fatto. Ci sono stato. Nel 2000. Secondo ed ultimo festival dell'era Fazio. Quello con Ines Sastre, Teocoli e non ricordo più chi altro. Quello vinto dagli Avion Travel, insomma.
Ho lavorato al festival come inviato di una radio romana. Eravamo lì in due ed ogni giorno dovevamo fare collegamenti in diretta ed interviste. Ma non è questo l'importante.
L'importante è che tutto il glamour sanremese, quello che giornali e tv cercano di trasmettere per un'intera settimana e non solo, non esiste. E' farlocco.
Sanremo visto da San Remo è più simile ad un remake di "Freaks" che alla notte degli Oscar. E più della manifestazione in sé, i veri protagonisti sono i personaggi assurdi che ruotano intorno, dentro e fuori l'evento.
Prima di tutto i sosia. Sanremo è il regno dei sosia. Li incontri ovunque: per strada, in albergo, al ristorante. Ma è sulla passerella che i sosia, i mille sosia di Sanremo, danno il loro meglio ed ottengono il giusto plauso. Esaltati ed ammirati da una folla di vegliarde pronti a strapparsi i capezzoli davanti a Michele Zarrillo, ma che non disdegnano un finto Pavarotti e una Liz Taylor de noantri. Più de noantri che Liz Taylor. A dire il vero.
I veri protagonisti sono loro e come loro tanti altri: Solange, i vari presenzialisti televisivi (Paolini, Riccardo Cocco, quelli lì), finti preti cartomanti, finti fotografi, finti tutti. C'era anche Bono Vox, quell'anno. E per questo ricorderò quel posto sempre con grande affetto: ha reso possibile l'incontro e la foto con uno dei miei miti di sempre. Leone di Lernia.
Poi ci sono i critici, gli speaker radiofonici, gli esperti di musica, che durante il resto dell'anno dedicano gran parte del tempo alla floricultura, e in quei giorni, solo in quei giorni, si scoprono novelli Greil Marcus ed hanno una parola per tutto. Sbagliata, ma ce l'hanno.
Quelli per cui D'Alessio è un grande artista. Sempre e comunque. Baudo non sbaglia un colpo.
E na volta sì che le canzoni erano importanti, i treni arrivavano in orario...
A Sanremo vanno tutti per la musica, ma della musica non interessa niente a nessuno.
Non interessa ai discografici, da quelle parti solo per inseguire passaggi televisivi per i propri assistiti, come se un pomeriggio a "La vita in diretta" in diretta dall'albergo tal dei tali potesse sopperire alle enormi falle di un anno di non promozione. Non interessa ai musicisti. Anzi: ai cantanti. Come ormai li chiamano solo lì. Non interessa a nessuno. Eppure ne parliamo tutti.
Misteri della fede: come il terzo segreto di Fatima e il sangue di San Gennaro.

A Sanremo quell'anno c'erano due sale stampa. Quella "vera" (dove quest'anno Chiambretti conduceva il dopofestival) e quella finta. Dedicata alle radio e tv private e locali. Quella dove ero io.
Una specie di Loggia nera. Un non-luogo nel non-luogo dove ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare: Tozzi (con la lingua blu) che si pavoneggiava di aver venduto più dischi dei Beatles, i Matia Bazar convinti di aver inventato la musica elettronica, Sting che manda cortesemente a cagare una giornalista toscana alla terza domanda sul sesso tantrico (si vede che era interessata), il giornalista che: "Scusi Andrea Mazzacavallo. Perché ha scelto questo nome?". Pausa. "Perché è il mio."
Non ricordo chi vinse il premio della critica quell'anno, ma ricordo l'enorme disappunto quando scoprii che noi poveri stronzi delle radio e delle tv non avremmo potuto partecipare alla votazione. E allora con Giacomo, il mio compare inviato, iniziammo la sommossa. Volevamo votare e alla fine votammo. Proponemmo l'idea di un premio della critica alternativo, dato dalle radio. Ci mandarono da Maffucci (il padre dello Zero Assoluto che "non fa niente". Repetto is the new black), dagli autori, dai capistruttura. E alla fine il premio nacque. Presero una targa destinata ad altri scopi e la travestirono da trofeo. Ci scattarono una foto e la misero sul giornale del festival. Lo vinse Irene Grandi. E noi che avevamo fatto tutto 'sto casino solo per far vincere i Subsonica...
Questa mattina ho scoperto che lo danno ancora. L'ha vinto Cristicchi. Pure quello.
E come dice Milva, la fulva, "The show must go oooooooooon".
Sempra con la "o" chiusa. Mi raccomando.

sabato, marzo 03, 2007

Contro i Mars Volta senza se e senza ma!

Anche perché abbiamo i Battles. Che ci frega di quegli altri?



(Il nuovo album,"Mirrored", esce tra un paio di mesi ma Atlas, il primo singolo, quello del video, è una vera e propria bomba).

venerdì, marzo 02, 2007

Questa me l'ero persa (pulls us near, tastes like fear...)

R.E.M. - Thom Yorke - E-Bow the Letter- Tibetan Freedom Concert 1998.
Ma soprattutto: Michael Stipe con la gonna.

giovedì, marzo 01, 2007

Blue sky is the limit!




Senza troppi giri di parole: 3 canzoni dal nuovo album degli Wilco.

Either Way
You are my Face
Walken

(Via Indietastic. Grazie a Paolo).

(E qui tutti e tre i pezzi insieme. Finché dura).

Come sono?
Either Way conferma le dicerie su "Blue Sky Blue" (o "Sky Blue Sky").
E' un brano molto pop e che ricorda da vicino alcune cose della prima fase Wilco (quella che va da "A.M." a "Summerteeth"). Molto bello l'arrangiamento d'archi.
You are my Face è gli Wilco come sono dal vivo. L'inizio è normale, pacato, con una melodia molto west coast, poi entrano le chitarre elettriche. Insomma: poteva stare benissimo su "A Ghost is Born". Il mood è quello.
Walken si conosceva già. Era una presenza fissa nei live della band da molto tempo.
L'inizio ricorda Hummingbirds, poi anche qui arrivano i chitarroni. La classica canzone che ti entra in testa e non se ne va più.
Come direbbe Baudo: "Se son rose..."

Update: il video di Walken live al Lollapalooza del 2006.


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