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Stephen Malkmus - Home Alone (LT 06)
Adam Green - American Idol (LT 05)
Low... forever changes (LT 05)
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Not tomorrow!No manana!Today! (LT02)
Blonde Redhead sulle ali della farfalla (LT01)
Oltre la traversa (Il Mucchio Selvaggio 2002/2003)


Weeds



giovedì, giugno 08, 2006

We're from Barcelona... comunque. Terza ed ultima parte

Il sabato inizia girellando per il centro di Barna alla ricerca di qualcosa da mangiare e dischi.
Lo sguardo si perde ad osservare una folla di spagnoli, inglesi ed americani con il naso all'insù.
Sono sotto un palazzo sulla cui terrazza si vede una folla di persone intente a smontare costosissimi oggetti scenografici e tecnici. Loro non sanno che stanno guardando Fabio Volo che se ne va.
E forse è meglio non farglielo sapere.
Arrivo presto sul luogo del festival, alle 17.00.
All'interno dell'Auditori (come dicono qui) sta per suonare Vashti Bunyan.
Sale sul palco dopo un lungo soundcheck, si siede su una sedia, prende in mano una chitarra ed inizia a cantare. Ogni canzone viene introdotta da un lungo monologo.
A vederla così da vicino sembra una di quelle fricchettone che puoi trovare al mercatino la mattina intente a vendere collanine di perle.
La sua voce è una macchina del tempo, ti trasporta in un mondo a metà tra la fiaba e la realtà.
Sembra la versione senza patemi d'animo di Nick Drake.
Anche se alla lunga finisce per stufare.
Il momento più alto del concerto rimane quando presenta un brano dedicato ad un suo amico pittore, invitando la gente ad immaginare la canzone come se si trattasse di un quadro.
Nel silenzio irreale dell'auditorium si sentono solo due voci. Quella di Vasthi e quella di Gioacchino, talmente preso dal racconto da lasciarsi sfuggire un accoratissimo: "Alla faccia r'o cazzo!"
Superato un attacco prepotente di ridarola decido di spostarmi all'aperto dove da lì a qualche momento dovrebbero iniziare gli Akron/Family.
Il loro concerto romano del novembre 2005 rimane uno dei più belli visti l'anno scorso, e per forza di cose l'attesa è alta. Purtroppo non riesco a vedere l'inizio, ma trovo comunque la band in forma smagliante. Se è possibile ancora più folle rispetto qualche mese fa.
Continuano a muoversi in bilico tra delicate ballate psycho folk ed incursioni terroristiche nel rumorismo più totale. Il tutto portato avanti con enorme ironia.
Suonano anche qualche pezzo nuovo, dedicano un paio di canzoni ai Flaming Lips e si lanciano in jam psichedeliche che finiscono per confluire in vere e proprie canzoni pop.
Vado via prima della fine per tributare un doveroso omaggio ad uno degli uomini che più di tutti ha contribuito a scrivere la storia del pop obliquo, Alex Chilton.
L'ultima incarnazione dei Big Star sale sul palco quando sono appena le diciannove. Bastano pochissime note per capire che fanno sul serio e spazzare via tutti i dubbi.
Chilton fa impressione, è scheletrico, tesissimo, un fascio di nervi con chitarra Gibson.
I suo compagni vecchi e nuovi di avventura non si risparmiano, è un concerto onesto, che bada al sodo e che arriva dritto al punto.
Dopo quasi un'ora decido di fare un salto di nuovo dentro l'auditorium. Gli Shellac dovrebbero essere sul palco già da una mezz'ora, ma la possibilità di riuscire ad assistere anche solo ad uno scampolo di show non può essere lasciata cadere senza neanche fare un tentativo.
Quando entro nell'auditorium trovo il delirio. Gli Shellac suonano raccolti, sul palco enorme.
Le rigide regole comportamentali che si dovrebbero rispettare in uno spazio così istituzionale sono tutte andate a farsi benedire.
Steve Albini ha invitato la gente a lasciar perdere i propri posti a sedere, Weston ha fatto di più. Ora il palco è riempito dal pubblico. Gli Shellac suonano circondati come nei concerti hard core dei tempi andati. Lo scampolo di show alla fine diventa praticamente un'altra ora di concerto in cui suonano anche pezzi nuovi (il nuovo album dovrebbe chiamarsi "Excellent Italian Greyhound"), chiedono al pubblico di fare domande ("What about Polvo?"), si abbandonano a gustosi siparietti (Todd Trainer che lascia i tamburi, si alza in piedi e si avvicina al microfono con una bizzarra camminata), corrono per lo stage mimando un aeroplano (Bob Weston) e suonano con una violenza tale da far sembrare Lemmy un membro dell'Opusghei. Non è la prima volta che li vedo dal vivo, ma è la prima volta che li vedo "così". Gentili, simpatici, assolutamente non stronzi e capaci di suonare come nessun altro.
Albini è un chitarrista enorme. Lo so, detta in questo modo può apparire una cosa scontata, ma spesso si tende ad esaltare il produttore (giustamente) e sottovalutare il musicista che vale tanto quanto.
Un bluesman con l'hard core nelle vene.

L'idea iniziale era quella di evitare Lou Reed (troppi pareri negativi sui recenti concerti italiani, troppi concerti visti in genere) e scegliere i Deerhoof. Ma un altro concerto noise dopo quello degli Shellac sarebbe come andare a vedere una partita del Raschiacco di Faedis dopo aver visto giocare l'Argentina di Maradona contro la Francia di Platini.
Guardo il programma in cerca di spunti. Fra qualche minuto (se Albini, Weston e Trainer si decidono a lasciare il palco libero) dovrebbe iniziare la Undertow Orchestra.
La nuova banda messa in piedi da Mark Eitzel (devo veramente scrivere chi è Mark Eitzel?), Vic Chesnutt (devo veramente scrivere chi è Vic Chesnutt?), Dave Bazan (devo veramente scrivere Pedro The Lion?) e Will Johnson.
Ecco, di lui devo veramente spiegare due cose. E' la mente dietro Centro-Matic e South San Gabriel. Al Primavera Sound è riuscito ad esibirsi con tutte e due le sue formazioni (con i Centro-Matic addirittura due volte) ed è una vera e propria rivelazione. Almeno per me che non avevo assolutamente idea di chi fosse.
Il clima sul palco è assolutamente rilassato, presto anche il pubblico. I quattro (coadiuvati da un altro membro dei Centro-Matic) si lasciano andare in chiacchiere e battute, prendono scampoli dai loro personali repertori e li mettono sul piatto comune riarrangiandoli ed arricchendoli di nuovi sapori. Da lacrimoni "Home" e il momento dedicato a Chesnutt (è impossibile vedere una persona ridotta in quel modo riuscire a cantare con una voce da pelle d'oca). Efficace l'attacco di Pedro The Lion con i pezzi più tirati dell'intero live act.
Della "rivelazione Johnson" ho già detto. Suo il compito di mettere la parola fine con una canzone in lotta per essere l'altro tormentone del festival (con quello degli I'm From Barcelona, ovvio).
Il tempo di affrontare l'escursione termica tra il dentro l'auditorium e il fuori, lottare contro il vento forte come un servizio di Ivanisevic è quello che basta per rendersi conto che Lou Reed sta ancora suonando. Con sommo piacere riesco a godere di Coney Island Baby e Set the Twilight Reeling, mentre vengo a sapere di essermi perso I'm Waiting For the Man e White Light/White Heat. Nessun rimpianto, comunque. La nuova formazione di Lou Reed, quella con basso elettrico e contrabbasso insieme, non riesce proprio a convincermi e finisce per assottigliare il suono a quello di una normale band di rock americano. Una band pretenziosa di rock americano.
Non aiuta poi la comparsa durante il bis (mi pare fosse Mystic Child) del maestro di Tai Chi del cantante, impegnato ad arricchire l'esibizione con mosse e coerografie che dovrebbero comunicare qualcosa ma che in realtà riescono solo a piantarmi in testa l'immagine di Lou Reed e Laurie Anderson intenti a fare le stesse mosse, in mutande, nel soggiorno di casa loro. La tournée di due anni fa era un altro mondo. Spero che se ne accorga presto anche lui.

Mentre al chiuso tocca ai Lambchop, faccio la strada che dall'Estrella Damm mi porta fino al Danzka. I Brian Jonestown Massacre sono già lì che si dimenano sul palco, alle prese con la loro visione psichedelica e malata del rock and roll. Impossibile non fare il paragone con i Black Rebel Motorcycle Club e se Brian e compari appaiono più genuini è evidente che quelli ad avere le canzoni migliori sono questi ultimi.
Il concerto finisce per fare un po' a pugni con la noia, ma va avanti senza intoppi tra bottiglie di vino rosso e whisky scolate come se fossero piene di aria fresca.
Da notare assolutamene la presenza a centro palco di un uomo con le basette che neanche il figlio di Gheddafi, il culo perennemente in fuori e il tamburello nella mano destra.
Di fronte ha un microfono, ma non canta. Non fa niente. Agita solo il tamburello.
Il mio nuovo idolo, insomma.
E' il turno dei Violent Femmes. Uno dei nomi più attesi della serata.
Sono in imbarazzo a parlare del loro concerto, visto che tutte le persone con cui ero a Barcellona lo hanno apprezzato tantissimo ed hanno passato il tempo a ballare e saltellare.
Io no.
E' che i miei Violent Femmes sono quelli che vanno dal 1983 all' 89. Tutto quello che è successo dopo non mi appartiene, l'evoluzione del gruppo mi è ignota.
Nella mia testa i Violent Femmes sono tre ragazzini punk alle prese con canzoni sgangherate. Non degli stimati musicisti, con una sezione fiati, un chitarrista aggiunto, un percussionista ed un suonatore di tastiere con tanto di computer dalla mela luminosa appiccata sopra. Sono perfetti, suonano benissimo.
Troppo bene. Sembrano la versione per famiglie di loro stessi.
E' come andare ad una festa e poi rendersi conto di trovarsi all'interno di un set cinematografico e tutto quello che vedi è finto. Pura coerografia, come le mossette ed i saltelli di De Lorenzo e le canzoni arrangiate in un modo per cui non non si debba mai venir meno al momento karaoke.
Certo, Add It Up, Blister in the Sun... tutte canzoni che ascoltate dal vivo ti lasciano qualcosa dentro, ma non quel qualcosa che era lecito sperare e pretendere.
Ma tutti ballano e tutti cantano.
Tutti battono le mani. Anche durante gli assoli interminabili di basso e batteria (e lo so che c'erano anche nel primo disco, ma non così). Forse sono il solo a non aver capito nulla.
Gli Stereolab li vedo dalla gradinata. Bel concerto, nulla di dire in contrario, così come sono belle le immagini che vengono proiettate alle spalle di Laetitia Sadier e Tim Gane.
Purtroppo scelgono di cimentarsi solo con il loro repertorio più pop, lasciando un po' di amaro in bocca.

Durante tutto il giorno mi sono imbattutto volente o nolente in un gruppetto di scozzesi visibilmente ubriachi, battenti bandiera del loro paese con sopra la scritta Mogwai.
Finalmente è il loro momento, mentre dagli altoparlanti viene diffusa la musica che fa da sottofondo alle gare di Champions League (cosa che manda in visibilio anche i catalani presenti), urlano e battono le mani inneggiando al loro gruppo preferito.
Sembra un concerto punk ed invece è un concerto post rock. I Mogwai salgono sul palco inguainati nelle tute del Celtic Glasgow.
Aprono con Yes! I Am a Long Way From Home seguita da Friends of the Night.
Sembrano molto più in forma rispetto alla data romana di un paio di mesi fa. Ogni pezzo viene accolto da urla ed applausi scroscianti dal pubblico.
Faccio in tempo ad ascoltare Summer e Mogwai Fear Satan, prima di lasciarli a malincuore.
Stanno per suonare i Boredoms, la gloria del noise giapponese, gruppo per il quale ogni apparizione live è un'avventura a sé.
Il loro concerto è difficile da raccontare. Tre batterie che suonano contemporaneamente, incastrandosi alla perfezione, con i synth e la voci di Yamatsuka Eye e Yoshimi (lei, quella dei robot rosa, ovviamente seduta ad una delle tre batterie), dando vita ad una sorta di raga indiano che riesce ad essere estatico seppur basato prevalentemente sul moto continuo.
Praticamente un ossimoro vivente.
Praticamente una delle esperienze più estreme ed al tempo stesso esaltanti a cui mi sia mai capitato di partecipare.
Finiscono dopo un'ora e mezza in cui qualcuno dorme, qualcun altro accenna passi di ballo, molti rimangono immobili, completamente rapiti dalla musica.
Nell'area dedicata alla musica dance Apparat ed Ellen Allien ("Tanto carina, arriva lì tutta fashion, gentile, poi inizia a suonare e mena come un fabbro. Li mortacci sua!" Lo dice Romina, grazie di esistere) stanno facendo ballare tutti. Alle 4 e 45 toccherebbe ad Erol Alkan, ma non ce la faccio.
Prendo la metro per tornare verso casa.
Durante il viaggio il vagone viene preso in ostaggio da un manipolo di spagnoli molesti che balla il flamenco e si diverte ad aprire le porte del mezzo mentre questo è ancora in corsa.
Anche questa è Barcellona.
And I like it.
Quasi.

3 Comments:

Blogger PikkioMania said...

per colpa vostra non mi sono potuto godere tutta ellen allien!! stava spaccando il culo a tutti insieme ad apparat!!!

(mai come le urla jappo di eye!)

2:49 PM  
Anonymous Anonimo said...

Sto rotto in culo!!!

ehehe

5:48 PM  
Blogger PikkioMania said...

yoo! si prega il signor colas di andarsi a leggere il vero report di barcellona eseguito su pikkiomania! solo li si dice tutta la verità! :D

purtroppo devo ancora mettere le parti concernenti i concerti.

1:33 PM  

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