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Weeds



giovedì, luglio 13, 2006

Che ore so' ma che ne so...

Metti una sera Manu Chao.



Venus in Furs dei Velvet Underground più che una canzone è un precedente.
Un manifesto estetico, la dimostrazione lampante che per raggiungere la perfezione in musica, a volte, basta poco. Pochissimo.
Solo due accordi ripetuti all'infinito. Punto.
Gli stessi due accordi. E un violino.
Il punk ha estremizzato ancora di più questo aspetto, seppur con intenti opposti, senza cercare di raggiungere alcun tipo di perfezione, ma facendo virtù dell'esatto contrario.
Tirare cazzotti sottoforma di canzoni. Canzoni di due accordi.
Ancora una volta.

Il Parco dell'Acquedotto Romano è un luogo bellissimo, suggestivo.
Un pezzo di periferia di Roma, estrema Tuscolana, con l'aria tipica del posto abituato per anni a fare da sfondo per Pasquette low-profile e mattinate di scazzo metropolitano.
Un Circo Massimo senza turisti, ma con gli immigrati.
Un posto bellissimo, mi ripeto.
Fa un effetto strano vederlo tutto agghindato del necessario che serve per ospitare un concerto: le transenne, i maxischermi, i baracchini che vendono panini, spillano birre e dispensano porchetta.
Il pubblico è pieno di famiglie con tanto di bambini, nonne e cugini di secondo grado.
Sembra la festa del quartiere.
Ma è il concerto di Manu Chao. Un quarantacinquenne che si veste come il matto del paese, ma con più carisma.

Io non lo so se Manu Chao abbia mai ascoltato in vita sua Venus in Furs, di sicuro conosce bene il punk. I Clash soprattutto.
E di sicuro conosce il modo per scrivere canzoni, a volte anche belle, fatte solo di un paio d'accordi. Conosce talmente tanto bene il modo che dal vivo l'effetto finisce per essere quasi stordente.
Due ore di concerto in cui i pezzi finiscono per assomigliarsi tutti, spesso e volentieri vengono anche ripetuti più di una volta e girano sempre intorno allo stesso canovaccio.
Inizio piano, con chitarrina, e finale forsennato un po' punk, un po' ska, un po' "buttiamola in caciara e famo salta' la gente".
Una specie di dj set con gli strumenti in mano in cui le canzoni confluiscono una dentro l'altra, finiscono e ri-iniziano continuamente. Senza sosta.

La prima volta che vidi Manu Chao dal vivo, nessun aereo si era ancora schiantato su un grattacielo, figuriamoci su due, nessun ragazzo si era beccato un proiettile in testa perché aveva un estintore in mano, il nostro paese non era coinvolto in nessuna guerra. Niente di niente.
Sarebbe successo tutto pochi mesi dopo, sembra essere successo tutto quindici anni fa.
Invece sono passati solo cinque anni.

La prima volta che vidi Manu Chao andavano di moda le tute bianche.
Tutti i concerti (anche quelli il più lontano possibile da qualsiasi connotazione politica) venivano interrotti sul più bello da una manciata di essere umani tutti capaci di parlare come se avessero un megafono conficcato in gola.
Manu Chao li lasciava fare e poi attaccava a suonare.
Le sue canzoni iniziavano tutte con la chitarrina, piano, e finivano in maniera un po' punk, un po' ska, un po' "buttiamola in caciara e famo salta' la gente."
Esattamente come adesso.
Con gli stessi slogan (maledetta "carrettera") e la stessa gente.
Ma senza le famiglie.
Un po' come spostare indietro le lancette dell'orologio e passare all'ora legale.
L'ora legale di cinque anni fa.
Prima dei cambiamenti, degli sbagli, delle scommesse perse e di quelle vinte.
Prima di tutto.

(Dopo Manu Chao si sono esibiti i La Phaze, band definita dallo stesso Manu come la migliore di Francia. Una specie di Asian Dub Foundation/Prodigy epoca "The Fat Of the Land".
Ho capito perché abbiamo vinto la coppa: lì è ancora il 1997. Manca un anno).

1 Comments:

Blogger sadpandas said...

te stai a supera'

(me riccomanno, metti 'a freccia)

;)

6:27 PM  

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