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Weeds



martedì, settembre 16, 2008

Elaborare i lutti

Gli ultimi giorni li abbiamo passati così.
A guardare la pioggia infrangersi sulle finestre e ad immaginare partiture d'archi che si adattassero alla ritmica naturale generata dalle gocce che cadevano sui soffitti. A fissarci i difetti ingigantiti dai neon, scrutare facce tinte di giallo sala d'aspetto.
Parlare, conoscersi, salutarsi.
Coprire tutti gli aspetti generati dalla vasta gamma di fattori chiamata "vita sociale"...

Io ho un problema. Un problema che si chiama "stare in mezzo alla gente".
Ed è veramente un gran problema del cazzo.
Una roba che va oltre la normale timidezza, la supera a destra senza mettere la freccia e mostrando il dito medio.
Non è stato sempre così, per quanto sia stato sempre "più o meno così", ma tutta la mia vita è segnata dal passaggio di una linea d'ombra che mi ha portato ad una chiusura sempre più evidente verso il mondo esterno.
Ed è strano, perché a me la gente piace un sacco.
Mi piace conoscere persone nuove. Mi piace osservarle.
Parlare (quello pure troppo), ma non è mai facile.
E mai come mi piacerebbe che fosse.
Per cui mi ritrovo a vivere a metà tra una socialità espansiva ed una inesistente.
Come se dentro avessi dei sensori, delle fotocellule che funzionano solo toccando determinati punti. Oppure rimangono spente.
Se mi guardo indietro non riesco a ricordare da dove tutto ciò sia scaturito, ma ho chiaro in testa il momento in cui ha cominciato ad accadere.
Quando intorno ai sedici anni anche prendere un autobus era diventato una specie di scoglio insormontabile.
Uscivo da scuola ed aspettavo l'ultimo. Quello con meno gente.
Praticamente la mia vita l'hanno salvata i walkman e la capacità di riuscire ad isolarmi. Ovunque.

David Foster Wallace e Richard Wright avevano solo tre cose in comune:

1) Aver vissuto due esistenze incredibili, ma che non hanno una a che vedere con l'altra.
2) Il fatto che probabilmente nella casa del primo c'era qualche disco del secondo.
3) Il taglio di capelli che Foster Wallace si è portato nella tomba e che Wright ha indossato per quasi una ventina d'anni.

I loro legami finiscono qui, soprattutto se non vogliamo tener conto dell'altro collegamento tra i due. Quello più triste. E per cui mi è venuto in mente di scrivere questo post.
Ieri sera mi sono reso conto di non avere in questa casa, la mia, alcun prodotto generato dall'ingegno di uno e dell'altro.
Nessun libro di DFW e nessun disco dei Pink Floyd. Eppure sono passati tra le mie mani, nei mie occhi e nelle mie orecchie, spesso. Finiti negli scaffali di qualche ex fidanzata e a sparsi a casa dei mie genitori. Un caso, ma forse anche no.
E non ho mai letto "Infinite Jest". E mi fa schifo "The Wall".
Anche se uno è il primo libro che mi viene da comprare ogni volta che penso di comprarne uno. Il secondo, quando ero bambino, l'amavo. Ora lo trovo orribile.

Io non ho mai capito quelli che invidiano il talento.
Il talento o ce l'hai o non ce l'hai.
Si può lavorare sodo per migliorarsi, crescere, ma quella cosa lì, la famosa lucina che si accende, non è roba di tutti ed è anche giusto che sia così.
Ché i geni veri si riconoscono subito dagli altri. Dai normali.
Wright in mezzo ai geni veri c'era finito, David Foster Wallace no.
Il genio era lui. Era evidente.
La sua scomparsa violenta e prematura era probabilmente l'unico step che mancava per ribadire con certezza il fatto che sarebbe rimasto nella storia.
Ora è sicuro.

Sono convinto di dovere qualcosa ad ogni scrittore che ho letto, così come devo qualcosa ad ogni regista di cui ho visto i film. Per non parlare dei musicisti.
Anche quelli incapaci, quelli che non mi sono piaciuti, mi hanno regalato qualcosa di loro che mi è stata utile per comprendere e crescere.
Certi libri di David Foster Wallace mi hanno insegnato ad essere curioso, a guardare la realtà, anche la più improbabile. Ad avere il coraggio di andarmi a sedere in un teatro durante un comizio di Pippo Franco o tra il pubblico di un concerto di Max Pezzali solo per vedere cosa succede e pensare al modo in cui potrò raccontarle.
Tutte cose divertenti che ho fatto una volta e che non farò mai più. Appunto.
Richard Wright ha semplicemente scritto la canzone dei Pink Floyd che amo di più, da quando l'ho scoperta, quella Summer'68 finita su queste pagine qualche anno fa e che ancora ronza nella mia testa.

Al concerto di Pezzali, prima dei bis, la gente gridava: "Ultimo".
I Pink Floyd vanno ancora molto forte nell'airplay delle birrerie.
Io scrivo la parola fine a questo post.

2 Comments:

Blogger clodhead said...

ecco, la prima parte del tuo post rappresenta esattamente ciò che ho vissuto da adolescente e che ad oggi stento a scrollarmi di dosso.
ecco, la seconda parte del tuo post rappresenta esattamente ciò che avrei voluto leggere sul compianto DFW. purtroppo, in entrambi i casi, non c'è di che esserne felici.

10:10 PM  
Anonymous Anonimo said...

Grazie per aver lasciato la porta aperta. Sono entrato e sono stato bene. Ti abbraccio.

11:29 PM  

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