Primavera Sound 2005 Report (LT 07 Preview)
Stephen Malkmus - Home Alone (LT 06)
Adam Green - American Idol (LT 05)
Low... forever changes (LT 05)
Revisionismi: J Mascis - Martin And Me (LT 05)
Sono un ribelle, mamma (Write Up n.2)
Tra le pareti (www.julieshaircut.com)
Broken Social Scene: all in the family (LT04)
Revisionismi:Weezer-Pinkerton (LT04)
Le parole che non ti ho detto (MarieClaire feb 05)
Revisionismi: Scisma-Armstrong (LT03)
Meg: essenza multiforme (LT03)
Greg Dulli e Manuel Agnelli: Matrimonio all'italiana (LT03)
American Music Club e R.E.M.- Once were warriors (LT03)
La lunga estate dei folletti (LT02)
Not tomorrow!No manana!Today! (LT02)
Blonde Redhead sulle ali della farfalla (LT01)
Oltre la traversa (Il Mucchio Selvaggio 2002/2003)


Weeds



domenica, settembre 30, 2007

Genio per cinque minuti/4

Prima o poi doveva succedere.
Era nell'aria.

Un gruppo emo - Finley oriented ha appena pubblicato una cover.
Anzi: la cover delle cover.
L'ultimo bicchiere. Quella di Nikki!



Fa cacare, ma non è importante.
Ah, visto che ci sono:



La nuova stagione di Please Don't Go.
Con annesso tlog di facezie anni '90.

venerdì, settembre 28, 2007

Rosso relativo



Non ho molta simpatia per le iniziative di questo tipo (una candela accesa contro la pena di morte, i lenzuoli bianchi, le bandiere delle pace appese alle finestre).
Sono consapevole che "vestirsi di rosso per la Birmania" sarà influente per le sorti del mondo quasi quanto affacciarsi dal Campidoglio gridando "sakata".
Ma insomma: come è che si dice? Meglio fare che non fare.
In ogni modo, questo è il mio contributo alla questione (e la scusa per tirare fuori dallo scaffale qualche bel disco di rosso tinto).
PS: Ok, lo so, mi devo tagliare la barba ed accorciare i baffi. Ma anche i capelli. E dimagrire. Prendere la patente. Pulire il soggiorno. Troppe cose che devo fa'.

giovedì, settembre 27, 2007

Il concerto dell'anno.

A Roma, il due novembre, giorno "dei morti", torna a calcare il palcoscenico:
Mr. Richard Benson!
L'Ozzy Osbourne del Quadraro.
Il Pino Scotto del lungotevere.

Lui:



UPDATE: qualcuno si è inventato anche un videogioco! Altro che Metal Gear Solid!

Chi viene con me?

martedì, settembre 25, 2007

Il cantamusicista/2 (aggiornamento settimanale)



La cosa curiosa di questo album è il tag che iTunes gli affibbia automaticamente una volta inserito nel computer per essere importato: world.
Strano, visto che ci troviamo davanti a quello che probabilmente è il capolavoro assoluto per quanto riguarda la musica pop italiana.
E' difficile scrivere qualcosa di "Emozioni", la seconda "raccolta di singoli" confezionata dalla coppia Battisti/Mogol, senza correre il rischio di cadere nel trito e ritrito.
Il disco nato dalla famosa gita a cavallo, da Milano a Roma, che il duo intraprese e portò a termine nell'estate del 1970.
Per una questione di coerenza con l'altra volta, si potrebbe ripetere il gioco della tracklist e rendersi conto di come in "Emozioni" sfilino uno dopo l'altro molti dei classici battistiani destinati a restare e durare nel tempo. Fiori rosa, fiori di pesco, Il tempo di morire, Mi ritorni in mente, 7 e 40, Dieci ragazze, Acqua azzurra, acqua chiara, ancora Non è Francesca e Io vivrò (senza te), Anna, Dolce di giorno.
Ed Emozioni, la title track, uno dei momenti più alti di tutta la carriera di Battisti.
Una canzone, secondo la leggenda, registrata interamente in presa diretta e in una sola take.
Buona la prima, come si suol dire.
L'unico brano ad essere rimasto oscuro è Era, un piccolo saggio di folk bucolico e leggero. Dalle parti di Nick Drake, senza esagerare.



Un'altra analogia che lega la storia musicale di Lucio Battisti a quella dei Beatles è la quasi totale riluttanza nei confronti della musica eseguita dal vivo.
Per questo motivo la tourneé di "Emozioni" (una decina di concerti, in realtà) sarà la sua prima ed ultima. Proprio da questa esperienza nasce "Amore e non amore", il primo disco "vero".
Quello pensato, scritto e concepito per essere un album, e non solo una raccolta di canzoni.
Un disco strano. Stranissimo.
Otto canzoni (più la bonus track Elena no), di cui solo quattro cantate.
Si racconta che quando Battisti le portò da Mogol, per cominciare a lavorare su i testi, quest'ultimo si sia rifiutato di aggiungere le parole.
Per lui andavano bene così.
E ci credo, in quelle canzoni dai titoli chilometrici, per la serie "Lina Wertmuller mi fa una zagana", sono racchiuse idee assolutamente all'avanguardia per l'epoca in cui sono state scritte. Brani figli del progressive (come potrebbe non essere altrimenti?), ma che vanno in mille direzioni diverse. Per certi versi, in alcuni casi, sembra quasi di ascoltare post rock. Prima ancora che Simon Reynolds si facesse venire in mente la definizione.
In tutt'altra direzione vanno i pezzi cantati. Dio mio no (traccia d'apertura. Sette minuti e mezzo!) è una canzone che mi piacerebbe sentire risuonata dai Velvet Underground.
Basta immaginare cosa potrebbero essere quelle chitarre se solo fossero distorte, soprattutto sulla bellissima coda strumentale (in cui si sente Battisti urlare i nomi dei musicisti per chiamare gli assoli). Una e Se la mia pelle vuoi confermano la passione dell'autore per il soul e la black music in genere. Supermarket è folle e al tempo stesso geniale nel suo essere volutamente sconclusionata e con un testo che oscilla in bilico tra l'estrema quotidianità e l'assoluto surrealismo. In parole povere, in quei quattro minuti e cinquantuno c'è racchiusa tutta la carriera discografica di Bugo e altri come lui.

Entrambi gli album sono acquistabili in edicola, per tutta la settimana, alla cifra di 12.90€ (putroppo in allegato ti danno anche Sorrisi e Ceffoni. Aveva ragione Dis0rder).

Ascolta: Una poltrona, un bicchiere di cognac, un televisore, 35 morti ai confini di Israele e Giordania.
Guarda: Emozioni ("A casa di Ornella").

lunedì, settembre 24, 2007

I believe in you (Magic is real)



Sulla torta di Springsteen, ieri, c'erano cinquantotto candeline.
C I N Q U A N T O T T O.
Due meno di sessanta. Due meno di mio padre (che per una strana casualità finisce per compiere il sessantesimo proprio nel giorno dell'uscita di "Magic").
Fa strano pensare a Springsteen come ad "un signore di una certa età", un po' per lo straordinario stato di conservazione del corpo (sembra mio nipote!), parecchio perché i nostri occhi hanno avuto il tempo di abituarsi all'immagine del "Bruce splendido quarantenne", come se i vent'anni trascorsi dal momento della sua esplosione come "Madonna del rock" (parliamoci chiaro, è quello che è) corrispondano, nella realtà, all'altro ieri.
Springsteen non è mai stato giovane (neanche quando lo era per davvero) e non sarà mai vecchio. I suoi capelli diventeranno più grigi, il corpo, forse, si appesantirà un poco, ma per tutti resterà sempre uguale. E la sua icona è il ritratto di Dorian Gray.

Non invecchierà mai neanche "Nebraska", nonostante le venticinque candeline.
Il suo album migliore, almeno per me.
Secondo gli springsteeniani di ferro, quelli che hanno la foto di Bruce sul cruscotto della macchina ("Non correre, pensa a me", in questo caso più che una contraddizione in termini), "Nebraska" è il disco che piace a quelli a cui Il Boss (come lo chiamano loro) non piace più di tanto.
Nel mio caso è quasi vero. Quasi.
Ho impiegato del tempo ad appassionarmi a Springsteen.
Ha contribuito il fatto di essere cresciuto in anni in cui, parliamoci chiaro, non ne azzeccava una.
"Born in the U.S.A.", quando ero bambino, mi piaceva. Mi sembrava un disco "forte".
Veramente rock. Con gli anni ho imparato ad odiarlo, colpa dell'ottusità dettata dalla teenage-angst ("nazionalista, repubblicano, tamarro...", cazzate), e di un suono laccato/tastieroso/muscolare/finto che era finito per diventare più di una barriera.
Per non parlare di quello che è venuto dopo: "Tunnel of Love", "Lucky Town" e "Human Touch". Il male. In pratica.
L'amore quello vero è sbocciato con "il fantasma di Tom Joad" e quelle canzoni di sofferenza e redenzione. Fino a tornare indietro e rispolverare le cassettine abbandonate del passato.
Dall'energia di "Born to Run", a "The River" e tutto quello che c'è in mezzo.
Fino a "Nebraska". Il suo disco migliore, come dicevo.
Un viaggio sulle strade del fallimento umano e della ricerca di un riscatto non possibile.
Un album sentito, diretto, senza fronzoli. Registrato su "quattro piste" (a cassetta), pensato per essere un demo e diventato tutt'altro.
Il disco che l'ha consacrato come autore (mentre la sua potenza come performer era già cosa nota) e reso eterno.
Un pezzo d'America dotato di gambe e cervello. Più che un cantautore: un'idea.
Come Dylan. L'eterno paragone e metro di giudizio della carriera di Bruce Springsteen.
Non c'è da stupirsi se un giorno, forse, realizzeranno un film su di lui e chiameranno decine di attori ad interpretarne la parte. Chiameranno Johnny Deep e Gandolfini. Winona e Owen Wilson. Don Cheedle e... Hulk Hogan. Chiameranno anche Hulk Hogan. Faranno un film e noi faremo la fila per andarlo a vedere.
Perchè Springsteen è così, ti spinge a compiere imprese che a mente fredda non faresti mai.
Smuove passioni insane e gesti folli.
Come spendere soldi per un film del cazzo, o passare una nottata/mattinata davanti al box office solo per assicurarti un biglietto per un suo concerto.

Nella notte tra il 27 e il 28 settembre, molti negozi di dischi (del mondo!) apriranno le porte in via speciale. Se nel 2007 il concetto di "fare la fila per acquistare un disco" sembra più etereo che terreno, Springsteen rappresenta l'unica eccezione.
"Magic", il primo album dopo un lustro con la E Street Band, è atteso come una rivelazione.
Non cambierà la vita di nessuno. Non dominerà le classifiche di rendimento.
E' un disco minore che nasce per essere minore, riempire gli stadi, spaccare i palchi e causare un paio d'ore di purissimo divertimento.
E, scusate, non è per niente una cosa da poco.
Non è da tutti. Più che altro.
E' da Springsteen.



Ascolta: Girls in Their Summer Clothes (Da "Magic").

Bonus Track:
State Trooper (Steve Wynn).
I'm on Fire (Johnny Cash).
Dancing in the Dark (The Thrills feat. Mike Mills)

venerdì, settembre 21, 2007

The blues is still number one, but I play: "Adesso Tu"!



E' la notizia del giorno.
L'unione tra due mondi finora distantissimi.
Eros Ramazzotti, l'uomo dall'adenoide impazzita, e Jon Spencer, colui che ha preso la pelvica e l'ha trasformata in un topos dell'indie rock, duetteranno insieme in un brano.
La canzone si chiamerà Taxi Story e sarà pubblicata nel "mezzo nuovo/mezzo vecchio" doppio album del Ramazza, dall'evocativo titolo "e2". Eros al quadrato.
Secondo voci di corridoio il disco si sarebbe dovuto chiamare "E2Palle", ma la casa discografica ha pensato potesse essere di cattivo gusto.
L'album in questione non è nient'altro che il rip-off nostrano dell'ultimo lavoro di Miguel "Papito".
Il trucco è semplice: si prendono canzoni note, s'imbastisce alla bell'e meglio qualche inedito e si chiamano un po' di ospiti prestigiosi a condire il tutto. Minimo sforzo, massimo risultato. Vendite garantite.
Ma dove Bosè ha scelto di andare sul sicuro organizzando una vera e propria parata di star, Eros rischia un po' di più ed oltre ai soliti Ricky Martin e Santana, coinvolge gente del calibro dei Take6, Wyclef Jean, i Chieftains e "il nostro eroe". Jon Spencer.

Secondo i miei informatori, l'incontro tra i due è avvenuto nei bagni della discoteca Tocqueville di Milano. Spencer era stato portato da quelle parti alla fine di un concerto degli Heavy Trash, Ramazzotti, invece, su quei divanetti è di casa. E' lì che gira le puntate del suo reality personale:
"Cinque gnocche a sera per una Michelle".
Jon stava uscendo dal bagno, ancora con la patta sbottonata, quando si è trovato davanti Ramazzotti, piegato sul lavandino ed intento a compiere un'operazione non proprio legale.
Spencer, che di "operazioni non proprio legali" è un grande esperto, ha subito chiesto di potersi unire al festino. Eros, che di certo non è tirchio, ha fatto di meglio, mettendo in condivisione anche un paio di elementi del suo harem personale.
La serata è decisamente decollata, proprio in nome della passione che entrambi hanno per la "pussy galore", e verso l'alba Jon ed Eros si sono ritrovati da soli nella casa brianzola del popolare cantante italiano.

"Io suono la chitarra."
"Anche io suono. E canto, anche."

"Faccio una roba un po' particolare, musica delle origini rivisitata in chiave moderna."
"Ah, grande. Io ho duettato con Tina Turner!"
"Nooo, Tina! Io ho un debole per lei e per Ike."

Ed è così che si sono ritrovati in studio ed hanno dato vita al brano destinato ad essere il prossimo capolavoro della musica mondiale.
Grazie ai miei potenti mezzi, sono riuscito a recuperare parte del testo e ad ottenere l'autorizzazione per pubblicarlo qui. In anteprima.

Taxi Story (Ramazzotti/Spencer)

Sono solo nella strada e tuuu
Tu non ci sei piuuu
Guardo pioggia scendere suuu me e mi chiedo dove sei e perché
Sdadadundeee
Io spero proprio che qualcosa arriverààà e da te, da te mi porteràààà
(Qui il brano diventa uptempo. NdColas)

That's right ladies and gentleman!
You know what I am. I'm the Taxi driver.
C'mon!
Uh!
The filobus is number one. I know the filobus is number one.
But I love my yellow cab.
C'mon!
Uh!

La canzone continua per altri quattro minuti, ma è ancora presto per sapere in che modo si possa evolvere. L'unica cosa da fare è aspettare il 27 ottobre.
Ah, dimenticavo: il nuovo disco di Baglioni sarà prodotto da Lemmy.
Quel Lemmy!



("Crimine di Photoshop" a cura di Giulia).

giovedì, settembre 20, 2007

Il cantamusicista (un post "scontato")

Anche noi abbiamo avuto i nostri Beatles.
Si chiamavano Lucio Battisti. O meglio ancora: Battisti e basta.
Solo con il cognome, come un compagno di scuola con cui non si è mai entrato troppo in confidenza. Ed è strano, visto che Battisti è stato ed è tuttora, in un certo senso, "uno di famiglia".
Uno che in un modo o nell'altro è entrato nelle vite di tutti.
Uno che solo con la forza delle canzoni ha lasciato un segno evidente sulla cultura popolare di questo paese. E non solo.
Battisti è arrivato dove nessun altro è riuscito ad arrivare: la sua musica con il passare del tempo è diventata sempre più patrimonio comune. E' musica di tutti.
Sembra che esista da sempre. Come l'aria.

Il primo album, omonimo, di Lucio Battisti è uscito nel 1969.
All'epoca non era così automatico riuscire ad arrivare a pubblicare un disco.
La sfida vera la si giocava con i singoli. I 45 giri, come si diceva una volta.
Con il "pezzo giusto" potevi dare vita ad una carriera e provare a diventare una star; al tempo stesso era mille volte più facile, e più comune, bruciarsi.
In quegli anni i dischi si vendevano ancora. Anzi, si vendevano parecchio.
Al punto che trecentomila copie erano un mezzo flop.
Battisti di flop ne aveva sfiorati un bel po'. Era quasi considerato un fallito, uno che con quella voce "strana" non avrebbe mai potuto fare grandi cose.
Eppure il talento c'era, aveva bisogno solo di qualcuno che l'aiutasse a tirarlo fuori.
La storia è nota: Mogol. L'incontro che ha cambiato due vite e la storia della musica italiana.
Un sodalizio partito sotto i peggiori auspici (all'epoca la casa discografica di entrambi aveva messo un veto sul cantante Battisti, per cui i due furono costretti a scrivere per altri) ed arrivato alla gloria dopo pochissimo tempo grazie a successi incredibili come 29 Settembre e Per una lira, numeri uno incontrastati nelle versioni di Equipe84 e Ribelli, che vengono ricantate e registrate da Lucio proprio per questo famoso primo album.
"Lucio Battisti" è un disco che a prenderlo in mano oggi c'è da restare a bocca aperta.
In poco più di trenta minuti riesce a rendere inutili e vani tutti i discorsi che siamo abituati a fare sulla musica e sul suo significato. Non tanto per il valore (elevatissimo, comunque) della proposta musicale, quanto per la potenza della tracklist.
Fa impressione avere tra le mani quello che è a tutti gli effetti un disco d'esordio e leggere tra i titoli almeno sette brani (su dodici) che sono rimasti ed hanno superato indenni questi ultimi quarant'anni. Tre anni fa, all'uscita del primissimo disco dei Franz Ferdinand, mi è capitato di leggere in giro di come fosse impossibile non ammettere l'importanza di quell'album a causa della traccia indelebile che alcune di quelle canzoni avevano lasciato su tutto il 2004.
Ecco, sul primo Battisti ci sono, una dopo l'altra, o quasi: Un'avventura, 29 Settembre, Non è Francesca, Balla Linda, Per una lira, Io vivrò (senza te), mentre sono state pubblicate solo su singolo (in contemporanea all'album) Acqua azzurra, acqua chiara e Dieci Ragazze.
Canzoni che dopo quarant'anni vengono ancora cantate da tutti.
Il panettiere sotto casa, l'indie rocker frangettata, l'impiegato dell'ufficio postale e perfino il portiere rumeno. Tutti, una volta messi davanti al più classico dei "ti stai sbagliando chi hai visto non è", rispondono in coro che no, non è Francesca e che Francesca non può essere lei.
E' un riflesso condizionato, non ha neanche più niente a che fare con l'avere o meno memoria.
E' dentro di noi. Punto e basta.

"Lucio Battisti" è un disco incredibilmente moderno, atterrato sull'Italia del 1969 come un'astronave carica di soul (Un'avventura potrebbe benissimo essere frutto del catalogo Motown se solo fosse cantata da un non bianco), psichedelia (cosa non sono Prigioniero del mondo e Il vento?), arrangiamenti sontuosi (29 Settembre è la nostra A Day in the Life, perdonatemi la sparata), idee e creatività da vendere.
Rubava da tutti, Battisti. E tutti rubano da lui, ancora adesso.
I suoi dischi, nessuno escluso, vengono ristampati in questi giorni e venduti in edicola a prezzo di favore.
Il primo, questo, è acquistabile, addirittura, a soli 4,99 euro più il prezzo di Sorrisi e Canzoni.
Da lunedì, invece, gli altri album saranno messi in vendita settimanalmente, a coppie di due, a solo 12 euro (e senza l'obbligo di comprare anche l'orrido giornale).
Insomma, mi piacerebbe che li comprassero tutti quelli che hanno scaffali pieni di Amari, Artemoltobuffa, Carpacho!, ma anche Afterhours e Blonde Redhead.
Ci starebbero benissimo.



Guarda: Per una lira & 29 Settembre.
Scarica: due stralci da un'intervista d'epoca (in cui Battisti è francamente insopportabile. Ma non importa).

Shanghai! Surprise!

Essì, quassù qualcosa è cambiato.
Volevo dare una svecchiata (ed anche tributare omaggio all'epoca che più mi piace della musica che più mi piace).
Ringrazio la webmastra per il lavoro svolto.
E chiedo suggerimenti.
Che dite?
Idee?
Cotillon?

martedì, settembre 18, 2007

'Cos I put your picture in a frame



E' iniziata come una leggenda metropolitana, più di una decina d'anni fa:
"Hai saputo di Eddie Vedder? E' uscito sul palco prima del gruppo spalla, da solo, ed ha suonato cinque, sei, pezzi in acustico. Cover degli Who e canzoni mai eseguite prima".
Da quel momento in poi, le sortite in solitaria di Vedder sono diventate quasi una costante, raggiungendo quasi livelli da psicosi collettiva.
Chiunque abbia familiarità con le "robe di Peggém", sarà sicuramente a conoscienza della vacanza romana fatta dal buon Eddie sul finire del 1996.
Una settimana in cui, ogni sera, girava voce di un concerto a sorpresa.
Una volta da solo, una volta con la (ex) moglie, una volta con un gruppo di musicisti romani, racimolati per caso, qualche ora prima.
C'è gente, qui, che sul tema "quella volta che ho suonato co'Eddivedder" ha costruito carriere ed anche una qualche idea di business.
"Vuoi fare le prove nella saletta usata da Eddie Vedder nel suo soggiorno romano? Bene, 30 euro all'ora. Grazie". E via così.
Ogni volta che qualcuno racconta questa storia, mi viene spontaneo pensare a quella volta in cui sono stato portato, la sera di un halloween di parecchi anni fa, in un pub di metallari in cui si diceva fosse stato avvistato Robert Plant. Ricordo ancora il colpo d'occhio sui corpi ammassati al centro del locale, dove un dj enorme mandava gli Slayer producendosi in una specie di "gesto della legna", ma più metal. Ricordo i sedili, lisi, rovinati e tutti imballatissimi di gente.
Tutti tranne uno. Tutti tranne il posto di Robert Plant.

Il disco solista di Eddie Vedder ha cominciato ad essere nell'aria proprio in quegli anni là, con l'aumentare delle partecipazioni del nostro in progetti diversi dal gruppo madre (le colonne sonore per Tim Robbins: dai duetti tra i Pearl Jam e Nusrat Fateh Ali Khan per Dead Man Walking, agli esperimenti per voce e ukulele di Cradle Will Rock) ed il progressivo abbassamento della qualità e dell'interesse generale verso i dischi "veri" della band.
Un po' come se il suono ricco, energetico e per forza di cose molto rock dei Pearl Jam, sia diventato negli anni quasi una gabbia per la scrittura sempre più classica, autoriale (springsteeniana) di Vedder.
Per tirare fuori un argomento molto in voga in questi giorni (anche per via di una ricorrenza): Vedder è uno dei pochi autori di canzoni rock ad avere le carte in regola per azzardare il suo personale, privato, "Nebraska". Se solo ne avesse voglia.
Ci si avvicina un pochettino con questo "Into the Wild", nato per essere colonna sonora dell'ultimo Sean Penn, ma credibile anche come album vero e proprio, lontano dalle immagini del film. Ci si avvicina, pur mancando ancora una volta l'affondo finale, finendo per allontanarsi il giusto dalle sonorità dei Pearl Jam, ma tornando, sul più bello, sempre e comunque "a casa".
Le canzoni, comunque, non mancano. Per certi versi, come già detto, sembra quasi che l'impianto minimale e appena sussurrato dei suoni e degli arrangiamenti sia molto congeniale alla penna di Vedder. Molto più della rabbia "controllata" presente nell'ultimo Pearl Jam.
Insomma: si ascolta, ma non fa gridare al miracolo. Per ora. In futuro chissà.

In questi giorni esce anche "Immagine in cornice" (proprio così, in italiano), eccezionale documento dell'ultima tourneè "pizza-spaghetti-mandolino-mafia" del gruppo di Seattle.
Un commovente affresco di vita on the road, che riprende la band su e giù dal palco. Dentro e fuori il tourbus. Da vedere, soprattutto se si è stati tra il pubblico di quelle sei serate, o se avete amici e conoscenti disposti a giocarsi lo stipendio ogni qual volta i Pearl Jam iniziano un tour.
Per dire: io mi sono divertito molto a fare "ce-lo, ce-lo, manca" con i volti della gente.
Ne ho riconosciuti parecchi, e molti "avevano suonato co'Eddievedder".



Eddie Vedder - Hard Sun (Into the Wild O.S.T.)

Eddie Vedder - Long Night (Into the Wild O.S.T.)
Eddie Vedder - Society (Into the Wild O.S.T.)

Pearl Jam - Immagine in cornice. A Picture in a Frame (DVD trailer).

sabato, settembre 15, 2007

Genio per cinque minuti/3

Chiunque abbia scritto questo titolo:



Da qui (lettura poco edificante, I know).

venerdì, settembre 14, 2007

Rock 'n Roll Circle



Bisogna prendere le misure, farsi spazio tra gli strumenti, abituarsi all'idea che, per una sera, tutto sarà diverso.
Niente gruppo sul palco e gente sotto che batte le mani, niente luci che vanno a tempo con la musica, transenne e scaletta da seguire. Niente di niente, eppure tanto. Tantissimo.
Un concerto degli Zita Swoon è un'esperienza unica, un qualcosa che ti cambia la prospettiva e ti lascia con delle domande. Ti fa venire il dubbio che tutto quello che siamo abituati a definire "live show" sia in realtà frutto di una concezione sbagliata.

Entriamo nel giardino del Circolo degli Artisti quando mancano pochi minuti all'inizio del concerto.
Dentro, come dicevo, è tutto diverso. Il centro del locale, la parte abituata a contenere corpi sudati e gente che si sbraccia, questa volta è occupato dagli strumenti.
Tanti, per certi versi anche troppi: chitarre elettriche, acustiche, contrabbasso, basso elettrico, percussioni di vario genere, batteria, tastiere, organo, addirittura una fisarmonica suonata una volta sola e poi rimasta lì a fare scena. E poi le voci: quella di Stef Kamil Carlens e quella delle sue due coriste. Praticamente le I Threes di Bob Marley, ma con un'unità in meno.
Prendiamo posto, qualcuno si siede, pochi restano in piedi.
Ad aumentare la sensazione di spaesamento è la visione di un palco pieno di persone. Un po' come se un giorno Pippo Baudo prendesse una sedia e si mettesse, dalla televisione, a guardare quello che facciamo noi nelle nostre case.
Inizia Stef da solo, si fa strada tra le persone, prende in mano la chitarra ed attacca con una canzone che è un'altra accelerata verso il surreale. Praticamente sembra Springsteen che canta una brano dei dEUS. O Tom Barman che canta una canzone di Springsteen.
Ecco, i dEUS. Stef Kamil Carlens viene da lì, da quel gruppo e per quanto cerchi di fare il possibile per discostarsi dal suo passato, per tutti sarà sempre "il fondatore dei dEUS".
Così c'è scritto sui manifesti. Così c'è scritto in ogni recensione della sua band.
E' vestito come un domatore del circo (o come un Gogol Bordello che si lava), finisce il brano, dà il benvenuto al pubblico e viene raggiunto dagli altri musicisti.
Dopo pochissime battute il concerto si trasforma in una festa: Tom Waits, il reggae, i soliti dEUS, Prince, canzoni in inglese, canzoni in francese. Tutto e il suo contrario. Dopo ogni pezzo cambiano posizione ed assecondano l'assetto circolare del pubblico. Tutti prima o poi si beccano le spalle, tutti vengono guardati dritti negli occhi. Fino al gran finale.
Fino al momento in cui la gente perde il controllo, si alza in piedi, balla e batte le mani, con il cantante che improvvisamente si trasforma in James Brown e si muove come posseduto da un qualcosa.
Lo show finisce e il gruppo sgomita per uscire. Noi altri invece rimaniamo dentro. E facciamo bene. Il bis è una canzone dei Violent Femmes, Add it Up. Ed improvvisamente siamo da un'altra parte, il Circolo diventa un jazz club anni '30, popolato per la maggior parte da gente che non c'era negli anni '70 e che sta ballando una cover di un gruppo degli anni '80.
Il confine tra lo spazio e il tempo va completamente a farsi benedire e ci porta lontano da tutto, dove l'unica cosa che possiamo fare è battere le mani a tempo con la musica.




Un po' di foto del concerto di ieri sera.

My Bond With you and your Planet Disco
(video).
I Feel Alive in the City (video)

mercoledì, settembre 12, 2007

Genio per cinque minuti/2

Il peggior regista del mondo.
Uwe Boll.
Il mio nuovo idolo (grazie Valido!).

Guardare per credere:

lunedì, settembre 10, 2007

London, I love you (and you're not bringing me down)

"Ma dimmi la verità: preferisci che i Jesus and Mary Chain facciano un 'bel concerto', oppure che scendano dal palco dopo venticinque minuti spaccando tutto?"
Nel Fondo di Questo Bicchiere non riesce neanche a finire la frase che subito accenna ad un sorriso. La risposta la conosce già.
Con i Jesus and Mary Chain il concetto di "bel concerto" assume tutto un altro valore e significato. Negli anni in cui il gruppo è stato attivo per davvero, la leggenda delle loro performance sgangherate, irrisolte e pericolose aveva fatto il giro del mondo.

"Non sanno suonare."
"Jim Reid non sa cantare."
"Suonano sempre di spalle."

"Sono troppo fatti."

Frasi che se le prendi tutte e le infili in un libro sulla storia del pop-indie-rock degli ultimi vent'anni fanno la stessa porca figura di una carrellata di luoghi comuni in un viaggio in treno.
Per questo motivo anche solo il gesto di prendere un aereo e attraversare mezz'Europa per andarli a vedere viene preso come un atto sconsiderato.
"E se poi fanno cagare?"

"Se poi fanno cagare" non è un nostro problema. Siamo sicuri che non sarà così.
Il nostro problema è l'aeroporto di Ciampino, una stazione di provincia da cui partono per caso degli aerei, e tutto quello che concerne il partire dall'Italia con un volo Ryan Air.
Facciamo il check-in che c'è già un'ora di ritardo. Ci organizziamo per una cena di fortuna e cerchiamo un posto dove sederci. Dopo pochissimo tempo diventiamo l'attrattiva principale per un gruppo di nazionalisti scozzesi che in una decina di minuti cerca di convincerci che:
A) La Scozia lascerà la Gran Bretagna ed entrerà negli Stati Uniti.
B) La carne delle mucche affette da BSE sarebbe dovuta essere data come pasto per i carcerati.
C) Gli immigrati portano delle malattie.

Il discorso finisce nel momento in cui sono costretti ad imbarcarsi.
Noi aspettiamo ancora, ed alla fine riusciamo ad arrivare a Londra che mancano dieci minuti all'una di notte.
Matteo, nostro ricovero e salvezza, deve andare a lavorare solo sei ore dopo. Nonostante questo riesce comunque a venirci a prendere e ad offrirci il suo salotto come giaciglio per la notte.

Il nostro primo giorno londinese, il giorno dei Jesus and Mary Chain, inizia con Rob, coinquilino molto tatuato di Valido, che ignaro della nostra presenza passa dal salotto per andare a fare colazione.
"Hi..."
"Hi, we're Matteo's friends. Sorry for the invasion."

"Not to worry... so, you're from Italy, then?"
"Yeah."
"... Pavarotti?"

"Oh... he's dead".

Con questo bellissimo dialogo nel cuore, ci svegliamo definitivamente ed affrontiamo la vita.
Londra è frenetica e molto cara, questo si sa e non ci stupisce.
Il sole e il caldo, invece sì. "Ed ora che ne facciamo di tutti questi maglioni?"
Passiamo la giornata (e le altre a seguire) andando in giro, incontrando persone che raramente riusciamo a vedere in Italia ed ingannando il tempo in attesa di andare alla Brixton Academy.
Già, la Brixton Academy. Ovvero, quella che sembra una piazza di una bella cittadina italiana incastonata tra le mura di un palazzetto dello sport. Praticamente si ha la sensazione di stare dentro ad una di quelle palline di vetro, un souvenir con dentro i monumenti, e se improvvisamente una mano dall'alto dovesse prendere la Brixton Academy e rigirarla, non ci stupiremmo affatto se ci nevicasse addosso.
Entriamo quando gli Horrors hanno già iniziato. Non erano previsti, non sarei mai uscito di casa per andarli a vedere, ma trovarseli così tra capo e coda dà comunque un valore particolare ed unico alla serata.

Gli Horrors appaiono meno fighetti e cotonati che nelle foto promozionali. Oddio: il chitarrista ha in testa una cofana che neanche Robert Smith, Solange e Daniel Ash nei loro anni migliori, ma insomma, niente di così irritante ed esagerato come sarebbe stato lecito supporre.
Anche dal punto di vista musicale sono una sorpresa. Io che li avevo bollati con la definizione di Motley Cure, una via di mezzo tra glam rock e pop dal taglio wave, mi devo ricredere.
Gli Horrors sono un gruppo emo tirato a lucido per finire sulla copertina di MTV.
E non emo per adolescenti: sono noise, apocalittici, ipercinetici.
Sono sorprendenti. Letteralmente. Nel senso che con i primi due pezzi ti sconvolgono e ti lasciano a bocca aperta. Il terzo e il quattro sono uguali ai primi due. Con il quinto arriva il primo sbadiglio. Al sesto non ne puoi più e speri che arrivino le giubbe rosse, la sifilide, il cimurro e pure un po' di scabbia a colpirli e tirarli giù dal palco.
Fortunatamente durano poco e lo stage viene "smontato" per fare spazio alla solo performance di Evan Dando (più chitarrista carneade).


Nonostante il colpo d'occhio dica tutt'altro, Dando pare decisamente più in forma che nelle ultime sortite a nome Lemonheads. Tranquillo, pacato e concentrato sulle canzoni.
Si muove in equilibrio tra gli episodi dei suoi anni migliori e quelli recenti.
Quando meno te l'aspetti tira fuori una My Drug Buddy da brividi.
Qualcuno in platea si commuove. Qualcun altro si lancia in boo di disapprovazione (anche se io non gli ho sentiti). Probabilmente il fatto di non avere la frangetta ha finito per penalizzare Evan.
Resta che dopo un pezzo, proprio mentre sembra ne stia per cominciare un altro, fa una finta di sopracciglio al chitarrista e di colpo i due se ne vanno. Senza salutare né dire una parola. Noi un po' ci guardiamo perplessi, poi cerchiamo di farcene una ragione immaginando Evan e compare che non si fermano neanche in camerino e, chitarre ancora alla mano, si ritrovano a suonare Rudderless nel taxi che li porta verso l'albergo. A suo modo: un eroe. Come sempre.
Il tempo del cambio palco ed arrivano i Jesus and Mary Chain, in una formazione che anche se non è proprio quella orginale, va bene lo stesso.


Fratello Jim dimostra meno dell'età che ha, è magro e decisamente ripulito rispetto gli anni e gli eccessi che furono. Per Fratello William, invece, è tutto un altro paio di maniche.
Mentre accorda la chitarra cerchiamo di capire a chi somiglia.
Giulia ha un lampo di genio: Pedro Almodòvar (ma anche Alberto Radius). E' bolso nello stesso identico modo. Più che altro io mi ritrovo a pensare all'effetto che la visione di William Reid potrebbe aver avuto sul giovane chitarrista degli Horrors: "Guarda come sei e guarda come diventerai." Roba da abbandonare la chitarra e cercare di farsi assumere come impiegato al catasto. Fortunatamente bastano pochi accordi per capire che l'abito non fa il monaco.
I Jesus and Mary Chain del 2007 sono una band in stato di grazia. Suonano tutti i singoli (più un pezzo nuovo) e risultano assolutamente credibili e compatti.
L'anarchia che aveva caratterizzato i loro anni giovanili si è trasformata in "casualità". Un caos controllato che porta ancora Fratello Jim a dimenticarsi le parole o l'attacco di una canzone ma, insomma, niente di paragonabile al delirio di un tempo. Si finisce per perdonargli tutto, anche l'immobilità e l'inutile cammeo di tale Fi McFall per i cori sul finale di Just Like Honey.
Ma chi se ne importa: io avevo già perso fiato e polmoni per Teenage Lust, Head On, Nine Million Rainy Days. E così anche il resto del saltellante e caldissimo pubblico, caricato a molla dall'inizio alla fine. Fino a Darklands (a quanto pare suonata pochissimo prima d'ora) e Reverence. Con le luci che diventano sempre più ossessive e Jim Reid che urla di voler morire come il Signore Gesù Cristo.
Il concerto si chiude con le orecchie che ancora avvertono il fischio dei feedback. Subito ci lanciamo a fare la fila per recuperare le borse (e nella mia c'erano dei 45giri degli R.E.M. che non avrei lasciato per nulla al mondo) e ci lasciamo la Brixton Academy alle spalle.
A casa di Valido, Rob ci aspetta con una bottiglia di Montepulciano d'Abruzzo comprata appositamente per l'occasione. Vuole fare un brindisi per Pavarotti. Accenna perfino un Do di petto. S'impegna.
Le chiacchiere e le bevute ci guidano fino al sonno. Poi, fortunatamente, ancora Londra, ancora cose da vedere, persone da incontrare e dove non arrivano le parole arrivano le foto.

Nel frattempo è già domenica sera, e noi siamo di nuovo in volo verso casa. A pochi minuti dall'atterraggio il Comandante spiega che saranno spente tutte le luci, come abitudine vuole in "The hours of darkness". Le ore del buio. Lo dice proprio così. Con la stessa voce che si sente all'inizio del video di Thriller di Michael Jackson.
Per una volta l'applauso è doveroso, spontaneo e poco italiano.
Noi, intanto, siamo di nuovo a casa.
Con molta voglia di ripartire.

The Jesus & Mary Chain - Darklands (Brixton Academy 07/09/07)

The Jesus & Mary Chain - Nine Million Rainy Days (
Brixton Academy 07/09/07)
Altre foto del concerto e di Londra, in genere, sul mio orribile Flickr.

Impresa eccezionale

Sono un scemo insonne.
Per questo motivo ho scelto di commentare gli MTV VMA AWARDS minuto per minuto.
Finchè mi regge la pompa. Almeno.
L'ho fatto qui.

Parola d'ordine: reinverdire gli antichi fasti.

giovedì, settembre 06, 2007

The Aeroplane flies high

Mi sono svegliato pensando all'ultima volta in cui ho preso un tram.
Pochissimi giorni fa.
Un tram che puzzava di tram, che faceva il rumore del tram, fermandosi alle fermate del tram.
L'ho preso per tornare a casa. Prendo sempre il tram per tornare a casa.
Non è un evento eccezionale. Non è una cosa a cui pensare.
Eppure mi sono svegliato così.
Fuori c'era ancora un po' di sole. Ma è durato poco.
Il cielo sembra debba collassare da un momento all'altro. Il rumore dell'aria si confonde con quello degli aerei.
Già, gli arei. Ne prendo uno stasera. Uno che passerà da parte a parte questo cielo grigio e mi porterà altrove.
Lontano da Roma, dalla Notte Bianca, dalle polemiche sterili e dal mal di pancia.
Spero anche lontano dal cattivo umore che in certe giornate sta bene quanto una cravatta su un completo gessato. Il tipo di vestito che Tony Soprano non indosserebbe mai.
Il tipo di vestito che ti mette addosso un disco del genere.
Questo.



Pj Harvey - Dear Darkness
Pj Harvey - White Chalk

(Posso scrivere "Nebraska"?)

mercoledì, settembre 05, 2007

La cognizione del dolore



Mia madre aveva una Panda Young: secondo la Fiat di fine anni'80, il tentativo di svecchiare e rendere giovane un'automobile nata già vecchia.
Nella realtà: un modello di Panda disponibile in un solo colore. "Verde catarro".
Il giorno in cui smettemmo di portare a scuola anche mio cugino coincise per me con una grande conquista. Finalmente potevo stare davanti.
Finalmente potevo occuparmi io della radio.
Scegliere le canzoni che preferivo, fare zapping. Essere il dj di me stesso.
Ricordo che facevo sempre un gioco: più la macchina si avvicinava verso la mia scuola e più la ricerca dell'ultima canzone da sentire diventava forsennata. Dovevo trovare un pezzo che mi piacesse, altrimenti la giornata sarebbe andata male. Una piccola, inutile, scaramanzia.
Tra le varie stazioni ce n'era una in particolare che cercavo di evitare con cura. Una radio dedicata solo al pop italiano più becero. Finire su quella frequenza voleva dire rischiare di avere un pezzo di Fiordaliso piantato come un chiodo nel cervello fino a sera.
Eppure c'era un brano che mi faceva impazzire.
Era un duetto. Il classico duetto all'italiana. Voce maschile e voce femminile.
Fiorella Mannoia da una parte. Pierangelo Bertoli dall'altra.

La canzone raccontava una storia delle più classiche: donna innamorata, a casa, che aspetta il suo uomo al ritorno da un'avventura pericolosa, o qualcosa del genere. Non ricordo.
In realtà la cosa che mi aveva colpito, catturato, era un'altra: la voce di Pierangelo Bertoli.
Forte. Potente. Tagliente come una lama affilata.
Ricordo ancora lo shock che ho provato la prima volta che ho visto, in televisione, Bertoli.
La prima volta che ho associato quella voce incredibile alla sedia a rotelle che la portava a spasso.
E' che siamo abituati, male, ad associare la disabilità con debolezza.
A pensare che alcune malattie e problematiche siano per forza viatico di rassegnazione.
Ed invece no. Bertoli lottava. Tirava cazzotti.
Era esattamente il tipo di persona che traspariva dalla sua voce. Nonostante, o forse per, la sedia a rotelle.

Ho provato la stessa sensazione l'anno scorso, quando ho visto per la prima volta dal vivo Vic Chesnutt. Occupava il centro del palco. Ai lati c'erano Mark Eitzel e Pedro The Lion.
Era impossibile non guardarlo. Non era esattamente il ritratto della salute.
Magrissimo, logorato dalla malattia che si porta dietro ormai da parecchio. Era difficile immaginare che conciato in quel modo riuscisse anche solo a parlare. E invece parlava eccome. E cantava. Benissimo. Non solo. Esattamente come Bertoli riusciva a trasmettere forza proprio con la sua fragilità, Vic Chesnutt trasmette gioia di vivere. Allegria. Nonostante la sua condizione e la canzoni tristissime che scrive.
Occupava il centro del palco e si prendeva per il culo. Si prendeva tantissimo per il culo. Ed anche questo lo rendeva eccezionale. Non permette di provare pena per lui. E ci riesce. Eccome.

Vic Chesnutt esce in questi giorni con un disco nuovo.
Il primo per la Constellation. Già, quella Constellation, l'etichetta che siamo abituati ad associare ad un certo tipo di post rock. L'etichetta dei Godspeed You!Black Emperor.
Quanto di più lontano dalle canzoni sghembe e quasi country del buon Vic.
Eppure l'esperimento riesce in pieno.
In "North Star Deserter" sfilano in parata alcuni dei nomi più illustri che frequentano quel tipo di mondo. I Silver Mt. Zion, Bruce Cawdron dei Godspeed (appunto), gli Hangedup, addirittura Guy Picciotto dei Fugazi. Parata di stelle assolutamente non fine a se stessa.
Questa volta Chesnutt ha scelto di prendere il proprio dolore e sbattercelo in faccia. Senza alcun tipo di sovrastruttura. Nudo e crudo. Urticante come le chitarre elettriche, nervosissime, che riempiono e caratterizzano queste canzoni.
Un vero e proprio calcio nello stomaco.
Uno dei dischi dell'anno. Uno dei dischi che rappresenta al meglio quest'anno.
Per me.



Vic Chesnutt - Marathon
Smashing Pumpkins vs Red Red Meat - Sad Peter Pan (Vic Chesnutt cover)
Sparklehorse - West of Rome (Vic Chesnutt cover)
R.E.M. - Sponge (Vic Chesnutt cover)
Pierangelo Bertoli e Fiorella Mannoia - Il pescatore

martedì, settembre 04, 2007

Genio per cinque minuti/1

Una nuova rubrica. Il tentativo (mio) di fare pace con questo blog.
Prima o poi tornerò a scrivere qualcosa. Giuro.

Intanto: il genio per cinque minuti di oggi.
Vasco Rossi nel 1979.
Ehhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh!

sabato, settembre 01, 2007

Fabri Fibra è solo un dilettante

La Roccia, invece, no!


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